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Fantozzi

Regia di Luciano Salce vedi scheda film

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La recensione su Fantozzi

di OGM
8 stelle

La saga di Fantozzi va letta al di sotto della superficie grottesca, della spettacolarità surreale delle sue gag. Solo allora essa appare nel suo autentico significato umano, che non la vede come un’iperbole della sventura, bensì, al contrario, come una sintesi essenziale dei “mali” che affliggono molti di noi:  lo svantaggio sociale e il senso di inadeguatezza. Questi, lungi da essere limiti connaturati alla persona, sono il prodotto artificiale di un aberrante sistema di poteri e di valori, di cui il microcosmo dell’azienda, con le sue rivalità ridicole e le sue insulse gerarchie, rappresenta efficacemente la natura posticcia e precaria.  I comportamenti imposti all’individuo dalle strutture esterne sono, per lo più, costumi assurdi, arbitrariamente eletti a canoni di riferimento, esattamente come certe mode, da quella del ristorante esotico a quella della vacanza in barca. Non esserne all’altezza, come il ragionier Ugo, significa, forse, essere rimasti liberi, non essersi conformati ai dettami altrui; e questo, magari, non è un merito acquisito, ma solo l’effetto di una predisposizione genetica, di cui fa parte anche una figlia dall’aspetto desolatamente lontano da ogni tipo di bellezza ufficialmente riconosciuto. La ragione sta quindi tutta dalla parte di Fantozzi, che, condiscendente quanto basta, nella misura suggerita dalla saggezza  e dal quieto vivere, non si ribella apertamente, ma nemmeno sfacciatamente si piega. La sua proverbiale sfortuna è, in ciò, la sua formidabile alleata, che lo preserva dall’entrare nel patetico gotha degli eroi del momento, come il dongiovanni di turno, il viveur della compagnia, oppure il beniamino dei capi. In questo primo episodio della serie, il personaggio ideato da Paolo Villaggio è dunque, fondamentalmente, una figura morale, che interpreta, con la genuinità tipica dell’esordio – ossia dell’umile tentativo del nuovo, non ancora forzato dall’obbligo del successo – un messaggio non di resa, bensì di docilità nei confronti di una vita che, per colpa degli altri, è diventata maledettamente difficile. 

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