Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
Secondo della trilogia della vendetta di Chan Wook Park, "Oldboy" batte il suo predecessore per suggestione visionaria ed un simbolismo machiavellico estroso. Nonostante prevalga il gusto kitsch nell'elegante rappresentazione pulp, il soggetto si dispiega tra surrealismo barocco e violenza efferata, evitando di far zoppicare il filo conduttore della narrazione. La cinepresa è sempre fluida e rigorosa nella messa in scena mentre assistiamo alla catarsi raggelante di Oh Dae-Su (Min-sik Choi); dopo essere stato bloccato quindici anni in una cella spiata da un controverso voyeurista, è deciso più che mai ad eliminare il suo aguzzino. Park cerca di creare nel suo mondo contorto un’agghiacciante coerenza empatica. Dae-Su tratteggia una figura tridimensionale, intrigante, incisiva. L'anima tormentata, maltrattata e contusa sia fisicamente che mentalmente ne traccia una sferzante profondità introspettiva. Dalla tragedia greca ("Il complesso di Edipo") alla filosofia freudiana, il regista dilata spazio e tempo in una spira di rivelazioni e flashback perfettamente legati all'evoluzione (e la decadenza) delle maschere, grazie anche ad uno scavo psicologico tormentoso ed una dimensione completamente labile tra la realtà e l'immaginazione, le quali si avvicendano reiteratamente tramite un avvenente montaggio giocato su dissolvenze oniriche e delicate alterazioni di tonalità del quadro filmico addotto: seguendo delle formule molto simili all'orientamento di matrice tarantiniana, l’autore riesce a crearsi una sua portata, una propria intensità spirituale, la quale, però, non si fa sobillare da uno stampo prettamente hollywoodiano. Le rade sequenze d'azione confermano uno stile inusuale, folgorante. In particolare impressiona quella del combattimento nel corridoio: la mdp espone una panoramica ove il movimento spesso rallenta e si interrompe senza soluzione di continuità; un’esperienza visiva sontuosa, quasi poetica. Choi, poi, si esibisce in un ruolo che richiede un'enorme gamma di impulsi emotivi, offrendo una delle performance più memorabili degli ultimi anni. Vediamo un uomo traboccante di rabbia repressa che avanza verso l'inevitabile incontro con la sua nemesi, e quando arriva il momento, assistiamo a una trasformazione straziante. Anche Hye-jeong Kang e Yoo Ji-tae conferiscono una compattezza pregevole ai loro personaggi, sebbene non raggiungano l’articolato spessore interpretativo del protagonista. Ingiustamente non menzionata dalla critica, infine, la splendida fotografia di Jung Jung-hoon, assai conveniente nello scandire con cromatismi brillanti le varie fasi di connessione della vicenda, in cui si alternano i desideri e le reminiscenze dell'inconscio con la cruda e squallida vita di Dae-Su. La mésse concede un pacchetto ben congegnato di recitazione elettrizzante, tecnica innovativa, trama incredibilmente deformata e umorismo nero, il tutto rafforzato da una colonna sonora lunatica e accattivante. Un vero classico, strettamente consigliato a chi voglia riscoprire il cinema d'autore orientale. Previsto un remake diretto da Spike Lee. Sarà all'altezza?
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