Regia di Olivier Assayas vedi scheda film
È la triste storia di Emily, una ragazza asiatica (una straordinaria Maggie Cheung) che dopo aver avuto il suo lungo momento di gloria, vive un periodaccio. Il fidanzato, rockettaro in crisi, muore d’overdose; il figlio viene dato definitivamente in affidamento ai nonni paterni; il proprio livello di tossicodipendenza è a livelli preoccupanti ed invasivi. La sua vita è triste e piatta e sempre alla ricerca di un lavoro, divisa tra San Francisco (dove ha dei contatti discografici), Parigi (dove decide di vivere) e Londra (dove però i ricordi fastosi sono troppo lancinanti per dimorare). Emily decide di farsi una nuova vita, di “ripulirsi”, per ottenere nuovamente la custodia del figlio. La sua solitudine è spezzata solamente dai vari incontri col suocero (un grandissimo Nick Nolte) con cui pian piano consolida un rapporto di fiducia (in realtà sembra l’unico a concedergliene davvero) e che sembra personificare il perdono.
La tristezza e la precarietà che questo film esprime sfiorano livelli parossistici. I lunghi primi piani della Cheung, gli sguardi di Nolte e poi i tentativi, vani, di trovare una via d’uscita al torpore in cui è caduta, sono perle di drammaticità. L’ottima interpretazione degli attori (palma d’oro per migliore attrice alla Cheung) ed una storia che, seppur dal motivo ritrito, non è mai scontata, viene banalmente rovinata dalla regia non all’altezza della situazione. Olivier Assayas, nonostante tratti temi fondamentali con grande rispettosità, si perde in un manierismo fuori luogo: l’incipit in particolare sembra girato, ma è un vezzo non un errore, da un operatore col Parkinson. Peccato davvero perché, per alcuni versi, il regista aveva stupito con movimenti di macchina eccellenti e soprattutto per l’incredibile capacità a piazzare la mdp in posti impensabili.
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