Regia di John Boorman vedi scheda film
Ecco uno di quei film di cui fa male parlar male. E non soltanto perché si tratta di un cineasta che abbiamo amato tanto. In My Country possiede evidenti intenti onorabilissimi: la ricostruzione dei processi per la verità e la riconciliazione che presero luogo nel 1995 a Città del Capo e dintorni sui crimini commessi durante l’Apartheid. Le questioni sono spinose: la confessione può di per sé essere ipoteca di amnistia? la violenza in guerra è necessaria? qual è il margine tra ordine dall’alto e volontà propria, soprattutto quando a venire in essere sono il sopruso e la tortura? le radici personali annebbiano lo sguardo e la lucidità di giudizio? Come abbiamo imparato nel corso della Storia e del cinema, quando si parla di guerra e di vittime, la verità e la giustizia, se mai esistono o sono esistite, non sono mai “bianche o nere”. Dunque, i problemi risultano alquanto complessi, e spesso il marcio sta “in famiglia”. Il fatto è che una cosa così non la farebbe più nemmeno Richard Attenborough, perlomeno in questo modo. Piatto, scipito, tirato via, In My Country non appassiona mai, né commuove. Sembra un prodotto girato per una cable di quart’ordine. E il melodramma è rasoterra. Non ci sono nemmeno quegli appigli autoriali che comparivano qua e là durante Il sarto di Panama. Le carrellate aeree e la Binoche frignona danno il colpo di grazia. Che Boorman l’abbia fatto su commissione? Anche se fosse, la digestione è davvero ardua.
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