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Fantasmi a Roma

Regia di Antonio Pietrangeli vedi scheda film

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La recensione su Fantasmi a Roma

di LorCio
10 stelle

Tra i film più sottovalutati del sopraffino e dimenticato Antonio Pietrangeli, Fantasmi a Roma è una perla preziosa che in troppi hanno liquidato come un’opera poco riuscita. Partendo da un’idea di Ennio Flaiano (gli aristocratici e decaduti palazzi romani abitati da fantasmi, e di conseguenza la convinzione che ogni casa sia popolata di spettri che determinano la vita degli abitanti in maniere disparate), Pietrangeli si fa assistere in sede di sceneggiatura da un trio di penne da far tremare i polsi (Sergio Amidei, Ruggero Maccari e Ettore Scola) e mette su una commedia che ha poco di italiano se non fosse per il contesto e i riferimenti ad una certa cultura a cui, idealmente, il film si rifà (il decadentismo prebarocco della Roma papalina, di cui la casa abitata da Eduardo De Filippo è la rappresentazione fisica).

 

Probabilmente tra i rarissimi casi di fantasy italiano (se consideriamo anche alcuni film di Maurizio Nichetti), questo film poco considerato ha molti punti di forza: una estrema raffinatezza nel disegno di un ambiente inevitabilmente crepuscolare, dominato dal suo crollare incessante per via di un mondo che non sa coniugare l’antico col contemporaneo (non è un caso che il personaggio di Belinda Lee, arrivista e alla moda, si sieda con violenza sulla pregiata sedia papale che campeggiava nel palazzo dei Roviano da secoli).

 

Un gusto non comune nel contaminare culture ed esperienze differenti (il teatro dell’egocentrico e geniale Eduardo nelle prime battute della storia; l’ironia dei giornali satirici del dopoguerra; un seme di arcaico e forbito linguaggio tuttavia comprensibile, tema che si ritroverà poi nel dittico di Brancaleone; la romanità popolana e nobile, quasi magica, che si individua in caratteri come quelli della vecchia e forse pazza Regina di Lilla Brignone o nell’osteria di Franca Marzi) raggiungendo un equilibrio armonioso; un reparto tecnico di qualità, in primis la stupenda fotografia di Giuseppe Rotunno e le scenografie di Mario Chiari e Vincenzo Del Prato.

 

Il piacere di una recitazione affatto banale, con personaggi da incorniciare per misura e squisitezza: il libertino Reginaldo di Marcello Mastroianni (impegnato anche nei disimpegnati panni del nipote di Eduardo e in un personaggio di seconda schiera che ben lascia comprendere l’attività sessuale di Reginaldo e le sue conseguenze nel corso dei secoli), senza una scarpa perché persa nell’atto della morte (stava cercando di entrare da una finestra per far visita ad una fornaia: cadde); il grasso e pudico frate di Tino Buazzelli (inopinatamente doppiato con la calda voce di Peppino Rinaldi), che morì avvelenato per alcune ciambelle; la fatua e romantica Flora che si gettò nel Tevere per amore (tra le più belle interpretazioni dell’allora bravissima Sandra Milo, comune caso di attrice partita divinamente e finita male); il Caparra, pittore incompreso che odia Caravaggio (con cui viene scambiato, suo malgrado) e che dipinge un grande affresco in una notte (una gustosa partecipazione di Vittorio Gassman).

 

Una favola delicata e sotto sotto mordace, brillante e bizzarra, esempio perfetto di cosa il cinema italiano non riesce e non riuscirà più ad essere.

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