Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Questo secondo film (dopo Family matters, dell'anno precedente) della Bier è un interessante apologo sulla libertà che trova il suo limite maggiore in un certo didascalismo, nella ricerca di una spiegazione semplice e diretta che raggiunga facilmente lo spettatore (il finale è, proprio per questa ragione, a ridosso del patetico), quando basta invece dire qualcosa di meno per far sì che l'opera lasci un segno maggiore. Lo ha scritto Jonas Gardell, autore televisivo svedese, ed è una storia che va a toccare le corde dell'omosessualità con una naturalezza notevole, ricordando in questo senso l'approccio alla tematica di Fucking Amal di Moodysson (che però arriverà solo nel 1998); si tratta inoltre di un quadretto borghese allo sfascio, altro terreno fertile per la contemporanea cinematografia nordica (Festen di Vinterberg, 1998; Mifune di Kragh-Jacobsen, 1999), ma d'altronde non solo per essa. Lo svolgimento lineare della trama è intervallato da proiezioni e incubi del quotidiano (il padre che si immagina morto) che rivelano la fantasiosa mano della regista; il triangolo di interpreti principali è ben assestato (Loa Falkman, Stina Ekblad, Simon Norrthon), il messaggio arriva forte e chiaro: l'unica vera vita è quella che scegliamo noi stessi, in completa libertà. E se per fare questo occorre barare o inventarsi un'alternativa imprevedibile (o addirittura inesistente), non rimane che improvvisarsi prestigiatori. 5,5/10.
Coniugi borghesi in vacanza con i tre figlioletti; il marito si invaghisce del garzone tuttofare del campeggio, la moglie prova a far finta che tutto ciò non stia accadendo. Ma sarà impossibile ricominciare daccapo.
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