Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
“Mamma, io ho fame!”
“Non si dicono queste cose a tavola! È da maleducati.”
Delle truppe napoleoniche occupano una chiesa di Toledo, uccidendo gli spagnoli e profanando il corpo della santa protettrice dell'edificio, incredibilmente non decomposta.
Ma è solo un racconto, narrato al parco dalla tata di due bimbe, che si isolano per qualche momento, sufficiente ad essere adescate da un signore che offre loro in gran segreto delle foto.
Le suddette foto vengono rinvenute dai facoltosi genitori di una delle due piccole, che si indignano all'immonda vista: architetture ed edifici, parigini e dal mondo.
Il padre della bimba passa una notte turbata da strampalate visioni, ragion per cui si reca dal suo medico curante, la cui infermiera deve assentarsi per fare visita al padre malato.
L'infermiera è costretta a sostare in un albergo, dove incontra, in ordine sparso: dei frati carmelitani coi quali gioca a carte, un giovane lì presente con l'anziana zia, un cappellaio con la bella collaboratrice.
Il mattino successivo l'infermiera riparte in auto, accompagnando un docente dell'accademia di polizia. E così via…
“Il fantasma della libertà”, ennesimo lavoro di un Buñuel mai domo nemmeno oltre i 70 anni, abbandona i sogni come fulcro dell'impianto narrativo e abbraccia il ribaltamento repentino di piani: personaggi e racconti si succedono tramite esili concatenazioni, senza contare che ognuno di essi è pesantemente viziato dalla relatività delle convenzioni sociali, qui spezzate, rovesciate, irrise.
La lezione del professore ai poliziotti (continuamente interrotta) spiega bene il messaggio: leggi e costumi mantengono l'ordine sociale, ma altro non sono che convenzioni, al pari di tutte le abitudini messe al bando dallo schema sociale; il docente fa l'esempio della poligamia, mentre il film stesso provoca addirittura su pedofilia, incesto, omicidio. Nemmeno la religione è risparmiata dal fieramente ateo Buñuel: i frati giocano d'azzardo, fumano e bevono, ma le battute che li ridicolizzano in pieno sono altre, come quando viene fatto notare loro dal cappellaio che è stato il Caso a farli incontrare, oppure quando un frate minimizza la portata salvifica delle immagini sacre.
Così come ne “Il fascino discreto della borghesia” sono coperte dal frastuono di un aereo, qui le frasi di un'importanza (supposta) fondamentale vengono demolite, lasciate fuori campo, interrotte dall'irrompere in scena di un personaggio i cui sviluppi diventano improvvisamente ben più importanti di quelli appena seguiti.
Al di là di ogni possibile riflessione sui valori sociali incatenati da schemi facilmente sovvertibili, questo di Buñuel diventa – alla lunga – essenzialmente un gioco anarcoide e dissacrante, la cui locandina rende già chiari gli intenti. Totalmente privo di colonna sonora, “Il fantasma della libertà” forse non può dirsi del tutto riuscito, poiché l'esercizio si fa un po' artificioso col passare dei minuti, pur risollevandosi alla grande con episodi esuberanti e pungenti. Impossibile pronunciarsi sul peso degli attori, giacché i più entrano ed escono di scena continuamente per non farvi più ritorno o quasi.
Maturo atto d'amore per il surrealismo (anche nell'approccio), elevazione della coincidenza a motore scatenante del processo artistico o scherzo ribelle che sia, “Il fantasma della libertà” resta un lavoro interessantissimo nella tarda filmografia buñueliana.
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