Regia di Alejandro Agresti vedi scheda film
VALENTIN
Al termine della proiezione di questo film di Alejandro Agresti, ci eravamo ripromessi di non scrivere alcuna nota critica, perché non ci sembrava il caso di infierire. Poi, però, è stato più forte di noi, dal momento che – ci siamo detti – un’occasione del genere non capita tutti i giorni.
La trama è presto detta: un bambino di nove anni circa, Valentin (Rodrigo Noya), vive a Buenos Ayres negli anni ’60, solo con la nonna paterna, dal momento che la madre è scomparsa dopo aver abbandonato il padre alcuni anni prima e quest’ultimo è in giro per il mondo a caccia di fortuna e fidanzate. Siamo alla vigilia del viaggio dell’uomo sulla luna e il bambino vive – come tanti altri suoi coetanei – nell’attesa di quest’avvenimento, che diventa l’oggetto principale delle sue fantasie e dei suoi giochi. Alla morte della nonna (Carmen Maura), andrà a stare per un po’ con la famiglia di un suo compagno di scuola, finché non riuscirà a mettere insieme una delle tante ex fidanzate del padre con uno squinternato pianista suo amico e presumiamo che quella sarà la sua vera famiglia, a quel punto.
La trama, così esposta nella sua nuda e neutrale oggettività, non offre appigli per alcun tipo di critica e attorno ad essa si sarebbe potuto costruire qualsiasi genere di film. La sceneggiatura, avulsa dalla situazione, potrebbe anche funzionare, poiché, a parte alcune banalità, è densa e non presenta buchi tali da renderla, di per sé, inefficace.
Apprendiamo dalle benevole note della scheda in distribuzione fuori della sala che il regista – che è anche attore nel film – ha voluto narrarci una parte della sua infanzia.
Ed è senz’altro qui che la materia che abbiamo fino ad ora presentata nella sua neutralità viene plasmata in modo da assumere una forma e prendere una piega tali da lasciare il segno. Alejandro Agresti deve avere ricevuto un trauma molto profondo dalle vicende della sua infanzia, tale per cui deve essergli rimasto il desiderio di raccontarla secondo la visuale che lui ne ha ora, forse nella speranza di poterla ancora modificare, di incidere su di essa tramite una frustrata memoria di sé, pilotando il suo essere bambino allora con modi di pensare, espressioni verbali e atteggiamenti che potrebbero appartenergli oggi. Ci spieghiamo: Valentin non è un bambino, ma un ragazzo di almeno il doppio della sua età trasferito nel corpo immaturo di un fanciullo. A noi è parso semplicemente un mostro: parla in modo forbito, compito, dice e fa cose da adulti, non ha assolutamente nulla, al di là del suo corpo, che possa certificare l’età anagrafica che gli è stata attribuita. Risulta, pertanto, saccente, antipatico, stiracchiato; ce lo immaginiamo il primo della classe, secchione, capoclasse, spia, guastafeste e rompipalle. Tanto che, ad un certo punto, avevamo in tutta onestà pensato ad una creatura fantascientifica di quelle partorite da Spielberg in A.I.: prima o poi – ci siamo detti – arriverà qualcuno che gli solleverà la calotta cranica per andargli a regolare tutti i transistor, i microchip e l’apparato elettronico che ha al posto del cervello.
Invece, no. L’intenzione del regista era proprio quella di rappresentare la vicenda di un bambino, vero, in carne ed ossa. A quel punto tutto ci è parso nella sua sconsolante ed inevitabile chiarezza: qualcosa di negativamente grottesco, di biecamente e lacrimosamente sentimentale, non contrassegnato da una vena umoristica – come altri hanno scritto – ma da una grossolana e glaciale stupidità.
Abbiamo trovato, però, una possibile chiave interpretativa di tipo psicanalitico: Agresti si è forse voluto liberare di un insopportabile senso di colpa che deve avergli rovinato la vita. Se lui bambino era veramente così come lo abbiamo visto nel film, si capisce bene come la madre, disperata, non abbia voluto saperne nulla di lui, che il padre, a sua volta, si sia dato alla fuga e che la nonna sia morta di crepacuore.
THEOPHILUS
3 marzo 2005
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