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Un incendio visto da lontano

Regia di Otar Ioseliani vedi scheda film

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La recensione su Un incendio visto da lontano

di Peppe Comune
8 stelle

In un villaggio del Senegal la vita trascorre tranquilla. Fino a quando non arrivano dei camion che trasportano i tronchi degli alberi tagliati per far posto a una strada a rompere equilibri che, attraverso la perpetua ripetizione di usi e riti tribali, duravano da secoli.

Equilibrando sapientemente favola e realtà, Otar Iosseliani fa il punto sull'etnocentrismo occidentale attraverso la messa in scena della progressiva corruzione della vita quotidiana di una comunità di aborigeni. La vita del villaggio è presentata in forma fantastica dove i riti e le usanze che in concreto scandiscono la vita della comunità si intrecciano con elementi surreali che vanno da una testa mozzata che ritorna al suo posto, al potere di una donna che con un semplice soffio provoca potenti folate di vento, da ragazzi che guadano il fiume sulla groppa di coccodrilli mansueti, a uomini che ricevono caschi di banane in premio delle loro prestazioni sessuali. In quest' "Eden matriarcale" Iosseliani muove la macchina da presa con la discrezione tipica di chi si sforza in ogni modo di voler registrare testimonianze di vite vissute senza essere invasivo, senza in alcun modo voler contaminare con agenti estranei il rapporto simbiotico che l'uomo ha saputo costruirsi con gli elementi della natura e genera con il contrasto tra onirismo e realismo l'antitesi tra l'eterna beatitudine rappresentata dalle immagini mitiche del villagggio e l'inizio del buio ("Et la lumière fut","La luce fu" è il titolo originale del film) con gl'incipienti segni della "modernizzazione" coatta in arrivo. A voler andare più nel profondo genera anche l'antitesi tra una storia che nella sua trasmissibilità orale ha avuto la capacità di durare per secoli e quella che crea cesure continue attraverso quei progressi della tecnica che si vogliono imporre a tutti. Sono i camion l'elemento che rompe l'atmosfera simbolica del villaggio e catapulta l'indagine di Iosseliani nella realtà. I camion dei bianchi (trasportati dai neri) rappresentano l'elemento venuto a condurre la vita del villaggio nel solco di quella storia scritta sempre dai più forti, a cacciare gli aborigeni fuori dal loro milieu naturale e a trasformarli in macchiette spendibili dall'ecologismo da salotto, ad agenti del folclore cittadino. É facile il riferimento a "Dove sognano le formiche verdi" di Werner Herzog dato l'assonanza evidente nell'arrivo dei "civilizzatori" venuti a distruggere arbitrariamente realtà etniche autosufficienti. Ma quei camion "cattivi" mi hanno fatto venire in mente le parole di Aki Kaurismaki che a proposito di "Juha" disse di aver voluo fare un film muto dove gli unici rumori ascoltabili dovevano essere "quelli buoni della moto del marito (Juha) e quelli cattivi dell'automobile dell'amante cattivo (Shemeikka)". Come quei rumori servirono a Kaurismaki per simbolegiare la fine di un equilibrio domestico fatto di un amore semplice, così il rumore dei camion sono serviti a Iosseliani per rappresentare la fine di un popolo a cui non è stato chiesto neanche il permesso prima di incendiargli le case. Del resto credo che i punti di contatto tra Iosseliani e Kaurismaki siano più d'uno e vanno dalla comune capacità di fare grande cinema col minimo consentito, alla tendenza di dare corpo e voce ad autentici outsider sociali. Autentici fustigatori della morale borghese, fanno dell'amore per le piccole cose un segno inprescindibile della loro arte.

 

 

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