Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
Un desolante ritratto di umanità, o forse di (dis)umanità nel modo in cui il film ritrae la condizione di pieno asservimento all'azione meccanica, la stilizzazione dei soggetti in scena, il rifuggire a priori la possibilità di un' autorealizzazione. La denuncia della condizione operaia traveste una più ampia trattazione della condizione umana in generale.
Oltre mezzo secolo dopo Tempi moderni, un nuovo affresco sulla condizione del lavoratore come uomo-macchina asservito a forze controllanti e manipolatorie. Eppure qualcosa è cambiato. Il film si apre con una lunga sequenza di macchine al lavoro, scevre da presenza umana. Qui si può già trovare il punto di divergenza con il fordismo classico ritratto da Chaplin: non c’è più sinergia tra lavoratore e macchina. Il macchinario è rimasto l’unico elemento di ordine, mentre il fattore umano è solo accessorio. Non c’è resistenza da parte della macchina, l’attività è diventata del tutto acritica e indifferente.
L’alienazione fagocita tutto il resto.La ricerca di una stabilità è quanto mai effimera, il tutto passa in superficie nelle pratiche del consumo, i legami sono superati. I personaggi del film interagiscono solo in superficie, in mancanza totale di empatia e comprensione verso il prossimo. Un processo di dissociazione, che diventa anche identitaria, fino all’estraniamento del se.
Il film scorre asettico come un ingranaggio, freddo come il ferro, grigio come un muro scorticato. L'impianto stilistico e registico è molto quadrato e ordinato, rifinito nei minimi dettagli. Rispetto agli altri film della "tetralogia operaia", l'attenzione è posta tutta sul singolo soggetto piuttosto che su di un intreccio narrativo, che rimane scarno. Per il primo quarto d'ora non è presente neanche un dialogo, se non qualche battuta insignificante. Lo spettatore è in posizione di osservatore nei vagabondaggi casa-lavoro della protagonista. Così come anche le faccende quotidiane di Iris seguono questo tipo di macchinosità perversa e alienante, nel piccolo appartamento cupo e opprimente dove mantiene i genitori, senza proferire parola. Stress e fatica sono solo aspetti secondari. C'è solo l'indifferenza.Il primo "dialogo" del film è un elenco di eventi di cronaca internazionale al telegiornale. Il televisore è un altro aspetto del ruolo dominante delle macchine, ora unico specchio del mondo esterno. Si tratta di cronaca nera riguardante eventi di guerra, rivolte , carri armati che attaccanoi civili, come le proteste di Piazza Tien’anmen. La desolazione e la tristezza è quindi un qualcosa ormai dato per scontato e condizione universale.
Nel ritrarre questa cupezza Kaurismaki predilige zone industriali e fabbriche, tetri palazzi residenziali. La protagonista viene seguita da vicino, inquadrature in primo piano per qualche secondo, poi lei si sposta e la camera rimane sugli oggetti circostanti, sul muro, sul tavolo solo per qualche secondo in più prima del taglio. Un tavolo con un bicchiere di birra mezzo bevuto, un muro scrostato, un tubo di scarico. Delle nature morte, in cui però manca la natura.
Sprazzi di umanità cercano di emergere in questa gabbia di cemento, una volontà di realizzazione che rimane soppressa.
I tentativi di Iris di farsi coinvolgere in una storia sentimentale danno vita a scene patetiche, quasi grottesche da quanto stridono con realtà circostante e provocano tenerezza o addirittura riso. Ridere è l'unica cosa che rimane quando tutto il resto sprofonda nella tristezza più totale. Questo senso del grottesco dal retrogusto nero rimarrà anche in seguito una caratteristica comune del cinema "nordico", in particolare registi come Roy Andersson ne indagheranno le possibilità espressive. L'uomo è evidentemente di classe sociale più elevata, anch'esso un altro ingranaggio del sistema, a giudicare da piccoli dettagli come il modo di vestire, l'appartamento o addirittura il tipo di carattere che utilizza per scrivere le lettere, quando rifiuta la paternità del bambino, non a mano ma tramite macchina. Una via d'uscita può trovare espressione solo attraverso una reazione estrema.
Difficile classificare il film come una semplice tragedia. In un certo senso, la tragedia è avvenuta ancora prima che il film sia iniziato. Non c'è nessun tipo di decadimento nel racconto, solo la disillusione a cui segue il ritorno ad una condizione di miseria (fisica e morale) che fin dall'inizio viene data per scontata e rimane sullo sfondo.
Una lenta disgregazione, quindi anche disillusione, che lo spettatore può vedere come presente sin dal principio. La Finlandia è paese più felice del mondo. Eppure l’autorealizzazione del se è quanto mai irraggiungibile. Può darsi solo con un atto estremo: l’omicidio. Il modo in cui questo accade non è solo secchezza, ma totale indifferenza (coma nella scena iniziale di Ariel, quando il padre del protagonista si uccide con la stessa leggerezza di bere un caffè). Logico, perfetto, senza trasmettere assolutamente niente, e niente effettivamente trasmette. Una tristezza oltre la tristezza, che non è neanche più tristezza perché in qualche modo è già superata. (Post)moderno esempio di cinema sociale.
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