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La Passione di Cristo

Regia di Mel Gibson vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su La Passione di Cristo

di giancarlo visitilli
4 stelle

Dal 1897 (The Passion Play of Oberrammergau) ai tempi nostri (The Passion of the Christ) muore e risorge anche sul grande schermo. Di Lui sappiamo che, essendo figlio del falegname Giuseppe, spesso trascorreva i suoi giorni nella bottega a levigare e tagliare assi di legno, prefigurazione della croce ch’Egli stesso porterà sul Calvario (Dalla mangiatoia alla croce di Sidney Olcott, 1913); conosciamo i suoi prodigiosi miracoli a Cana e non solo (Intolerance di Griffith, 1916); la sua vita regale fra i poveri, di “re reietto” (The King of Kings di Cecil De Mille, 1927; La Tunica di Henry Koster, 1953: primo film in cinemascope; Il re dei re di Nicholas Ray, 1961; La più grande storia mai raccontata di George Stevens, 1965). Poi la svolta, quella a cui ci si rifà (molto falsamente) ogni qualvolta un regista tenti di raccontare la storia dell’Uomo di Nazareth attraverso la macchina da presa: l’insuperabile Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964), preceduto, un anno prima, dall’episodio del Cristo che muore sulla croce per indigestione, dello stesso autore (Ricotta, 1963). Una parentesi, nel 1977, l’insopportabile (fiction)-film, Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Bisognerà aspettare dieci anni per l’uscita dell’Ultima tentazione di Cristo (1988) per lasciarci sedurre dall’umanità cristologica di Martin Scorsese, di seguito caricata dalla sofferenza dello splendido Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco (1998), l’ultimo film-scandalo (in realtà: il più religioso fra quelli qui citati) contro il quale la chiesa di Roma s’è accanita per ben due anni, attraverso un’immeritata censura, per fortuna, alla fine, rivelatasi priva di senso (ammesso che ci fosse mai un senso all’evirazione di un’opera qualsiasi…).
Ma il 2004 è senza dubbio l’anno di The Phassion of the Christ di Mel Gibson, il cui successo (2 milioni di biglietti prenotati nelle sale italiane, nella sola giornata di ieri) metterà a dura prova lo sfidante Peter Jackson de Il Signore degli anelli. A proposito della Passione di Cristo di Gibson s’è scritto e sentito di tutto (ma ne avremo ancora per lunghi mesi di appuntamenti speciali, modello Porta a porta). Noi, ‘privilegiata’ gente del Sud, ci siamo dilettati a seguire sul set molti amici-comparse, essendo stato girato il film in quel singolare luogo, patrimonio dell’Unesco, i Sassi di Matera. Finalmente ieri la tanto attesa visione.
The Passion of the Christ è un film horror dall’inizio alla fine. Durante i primi quindici minuti, la scena del notturno nell’orto degli ulivi, ha tutte le caratteristiche di quel genere di cinema per il quale la luce, i movimenti della camera, la musica, il luogo e le parole bisbigliate (fra l’altro in aramaico), contribuiscono a creare vero panico.
E’ un film durissimo, che non concede spazio alla fantasia. In Italia la visione di questo film non è stata vietata (come è avvenuto per altri Paesi dell’Europa) neanche ai bambini a cui, durante gli anni di catechismo, viene raccontata in diverso modo (per fortuna!) la storia del Figlio di Dio. Inoltre, molte sale italiane si sono addirittura, da subito, mobilitate ad organizzare mattiné, perché “la visione di questo film è consigliata ad un pubblico della scuola, visti i temi che affronta il film” (come si legge in una circolare fatta circolare nelle scuole italiane in questi giorni).
Gli uncini dei flagelli strappano la carne viva e lo spettatore soffre e sussulta insieme con il sanguinante protagonista della storia. Per tutto il film. Due ore e dieci minuti di sofferenza vera, tanto che, alla fine del primo tempo, non sarà difficile ascoltare la liberatoria esclamazione del pubblico “Ah, finalmente!”. Il sangue scorre copioso sullo schermo, peggio che nei film di Kitano, di Ferrara e persino di Tarantino.
Questo film non può non dirsi un inno al fondamentalismo d’ogni genere, a prescindere dal credo di Gibson. In un mondo in cui ci si ammazza ogni giorno in nome di dio (tanto da far invidia alla storia del vecchio testamento), come è possibile far circolare un film cruento e sanguinario come questo? Quanti (‘capi e re’ d’ogni sorta), guardando questo film, potranno ergersi il diritto di schiacciare la testa del serpente: una delle prime scene shock del film.
Ma non mancano le emozioni. In verità poche, se si pensa alla storia raccontata. Tutte, però raccontate solo attraverso gli sguardi: il tradimento di Pietro, finalmente senza alcun gallo che canti, attraverso la camera che inquadra lo sguardo dell’apostolo, che s’incrocia per pochi secondi con quello sofferente del Cristo, poi ripreso allo stesso modo con il “discepolo che amava tanto” Giovanni, a cui gli affida la madre, ai piedi della croce. Stessa soluzione per il perdono della peccatrice: nessuna parola, se non un linguaggio molto più udibile e diretto, lo sguardo.
Tuttavia, rimane un film improntato più su realismo di tipo culturale, che storico, come quello di voler ascrivere ai padroni della Palestina di allora, i Romani, i Farisei, la corte di Erode, la responsabilità per la morte, del figlio del falegname, venuto dalla Galilea, sulle basi di un conformismo accreditato solo dalla massa. Chissà se la verità non stia da qualche altra parte! Sappiamo, tuttavia, che “la verità ci farà liberi”. Di quale verità si tratti, non ci è dato ancora capirlo, nonostante le chiese d’ogni confessione e i loro insegnamenti, da cui provengono film come quello di Gibson.
La mancanza di una volontà poetica, preclude da subito le strade alla storia di un uomo che, comunque ha dato la vita per amore altrui. Gibson gioca solo (e di gran lunga) sul ribrezzo, il rumore degli arti spezzati, impressionando lo spettatore alla stessa maniera di come ci si può impressionare in questi ultimi giorni vedendo le immagini girate in Iraq. Checchè se ne dica, La Passione di Cristo non è affatto un film pacifista. Anzi. Anche l’estetica del racconto si avvale semplicemente di dissolvenze incrociate per descrivere gli avvenimenti salienti della vita di Cristo (l’elevazione della croce sul Golgota e l’elevazione del pane consacrato durante l’Ultima Cena), ma non ci si emoziona; eppure assistiamo al dramma di un uomo crocifisso.
Lo spettatore vive gli stessi sentimenti della maggior parte degli attori scelti da Gibson, molti di questi interpretati, date anche le location italiane (Cinecittà e la città vecchia di Matera), da attori di casa nostra: Monica Bellucci (Maria Magdalena), Mattia Sbragia (Caifa), Luca Lionello (Giuda), Claudia Gerini (Claudia), Rosalinda Celentano (Satana), Sergio Rubini (Disma). Nessuno prova pietà nei confronti del condannato a morte, piuttosto, le truppe imperiali, i romani, in genere, sono una marmaglia sghignazzante ed oltraggiante, sadica ed insensibile, prefigurazione di quella che sarà poi la loro futura e inarrestabile decadenza. Il Cristo di Jim Cavaziel, come il soldato de La sottile linea rossa, non sembra nutrire alcuna speranza circa la sua sorte. E’ un Cristo letteralmente “condannato alla morte”, senza scampo e senza alcuna prospettiva di resurrezione. Infatti, nonostante la visione della pietra che rotola “il mattino di Pasqua”, difficilmente lo spettatore credente o agnostico che sia, può credere alla resurrezione, considerata, piuttosto come una pausa, troppo breve rispetto a 126 minuti di violenza inaudita. Un eccesso che si scontra con la pomposità e gli eccessi della stessa scenografia (i rallenty strabusati, le dissolvenze, le immagini dei paesaggi in dissolvenze che non conducono a nulla) che, insieme ai ritmi tribali, rendono il lavoro di Gibson un Brave Heart, che come tutti i ‘re’ di questa terra, sono ancora capaci di tante atrocità nei confronti dei tanti cristi che ogni giorno muoiono senza risorgere (in Iraq, in Spagna, in Algeria, in Somalia…), magari in nome di un dio, ormai debole, che ci ostiniamo ancora a chiamare “Democrazia”.
Giancarlo Visitilli

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