Regia di Mario Martone vedi scheda film
La malattia sessuofoba, asessuata, la follia del vivere felici, il prosciugarsi di qualsiasi altra possibilità e la scarnificazione fino alle ossa per amore, sono tutto ciò di cui è fatto il nostro recente cinema italiano, da Non ti muovere di Castellitto, L’amore ritorna di Rubini e Primoamore di Garrone. Ora ci prova un altro grande maestro e regista, Mario Martone, con il bellissimo L’odore del sangue, tratto da un romanzo di Goffredo Parise, scrittore tra i più interessanti della seconda metà del Novecento, collaboratore come sceneggiatore di Bolognini.
Martone non cambia nulla, o quasi, rispetto a quegli amori molesti. Anzi, in questo suo nuovo lavoro aggiunge il respiro degli amanti, attraverso le nature morte dei corpi nudi, madidi e imperlati di sudore. Affonda la lama nei meandri della sessualità più vitale. Raccontando la vita, attraverso la morte e cantando di quell’amore perduto o mai raggiunto.
Carlo, un giornalista di successo, e sua moglie Silvia, dopo lunghi anni di matrimonio, vivono una nuova ma non meno lacerante relazione che, sebbene li faccia condividere ancora una vita familiare, li conduce oltre il loro ménage comune, tramite delle relazioni extra-coniugali: Carlo con la giovanissima Lù e Silvia corteggiata e poi maltrattata (non si riesce mai a capire se mai amata) da un giovane misterioso e violento. Tuttavia, l’abitudine quotidiana dei due sposi comprende ancora le lunghe telefonate, le cene con gli amici e i rapporti d’amore. La figura misteriosa dell’amante di Silvia, più di tutte, finirà per destabilizzare la vita di Carlo, trasformandola presto in un’ossessione, a causa dei suoi continui tentativi di conoscere ogni aspetto della sessualità della moglie con il giovane.
Un’unica cornice inquadra i protagonisti (come nei dipinti del padre maldestro di L’amore molesto): la città, vista nei suoi molteplici aspetti. Ora la Roma dei quartieri bene, poi quella della campagna in cui Carlo si rifugia per raggiungere l’amante. Ma c’è anche la Sicilia e Venezia, i luoghi dell’abbandono e del ritrovo. In quest’altra opera estrema, Martone entra negli abissi, negli anfratti, negli scantinati dell’ossessione, mostrandone il lato maggiormente violento e buio. Molto più che nella Napoli, al centro di Morte di un matematico napoletano, de L’amore molesto e di Teatro di guerra, la Roma di questo film è il set ideale sul quale si respira, idealmente e realmente L’odore del sangue. Perciò potremmo definirlo quasi un “thriller metropolitano”, in cui l’alta tensione è generata dalla presenza di un personaggio che non si vede mai, del quale avvertiamo l’odore, la presenza materiale (attraverso i segni lasciati nei luoghi abitati anche da Carlo) e finanche la sua sessualità, attraverso le parole di Silvia. Il racconto di Silvia e lo sguardo di Martone formano un connubio eccezionale, che esaltano la fisicità-sessualità viva dei corpi. Si avverte lo stesso brivido ch’è sulla pelle dei protagonisti, anche nel momento della morte, con Carlo davanti al cadavere della moglie.
Come un bellissimo olio su tela, L’odore del sangue rende palese l’idea di come un regista (come Martone ce n’è pochi in giro) possa mescolare nella sua ‘tavolozza’ le ‘tempere’ più diverse, purchè fondamentali: dall’onirismo di Kubrick, alle storie di vita pasoliniane, passando anche attraverso la tragicità solare di Almodovar. Coadiuvato, anche, da attori che rendono l’anima alla macchina, come lo è per l’eccezionale Michele Placido, Fanny Ardant e Giovanna Giuliani, molto simile alla protagonista di Primoamore di Garrone.
L’inizio e la fine di questo film hanno un’unica immagine, appunto, quella della natura, umana, ma morta. In essa vibra l’alito di vita e scorre ciò che dà ancora un senso al vivere quotidiano: semplicemente lo scorrere del sangue. A meno che non vi sia la possibilità di ansimare all’unisono, tenendosi mano nella mano, raccogliendo ciò che rimane di una vita che ormai non ha più odore.
Giancarlo Visitilli
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