Regia di Mario Martone vedi scheda film
Indubbiamente Mario Martone ama osare, ma ogni audacia è inevitabilmente collegata ad una ricerca. Renato Cacciapuoti, anima di Morte di un matematico napoletano, è quel che si dice un personaggio borderline; L’amore molesto vive delle sue inquietudini soprattutto carnali; Teatro di guerra è cinema di frontiera. Il parsimonioso Mario, una vita in e per il teatro e più di un’incursione (mai sbagliata) sul grande schermo, partorì con grande fatica l’adattamento di questo romanzo postumo di Goffredo Parisse, autore da lui tanto amato quanto da noi tanto rimosso.
L’odore del sangue, nel cinema italiano del primo duemila, è un grande film rimosso (tanto per fare un esempio, nessuno se n’è ricordato celebrando giustamente Noi credevamo) perché è innanzitutto un grande film sbagliato. Malato, nella fattispecie, morboso sia nei confronti della materia letteraria (il libro è il totem, forse proprio per la sua incompiutezza) che all’interno della dinamica narrativa, con al centro due personaggi evidentemente complessi che hanno scelto in passato l’amore libero (che va a coincidere naturalmente col sesso) e d’improvviso si scoprono gelosi: la gelosia esplode in lui e diventa sempre più repressa in lei.
Il film racconta una caduta rovinosa verso l’abisso, più della passione che della coscienza, privo di fronzoli o di barocchismi, secca e quasi distaccata (poteva essere un mèlo raggelato al calor bianco, ma prende un’altra strada, più difficile) nella sua natura tragica ed irrimediabile: giunti ad un punto di non ritorno per troppa fiducia nei propri desideri, Carlo e Silvia entrano in due tunnel diversi, l’uno abitato dalla carne e dalla giovinezza di Lù, l’altra nei sottoboschi neofascisti vogliosi di scoparsi una donna matura ancora piacente.
Sicuramente ha dei problemi: ci sono due o tre momenti fin troppo enfatici (il sesso orale di Silvia al suo ipotetico amante nelle fantasie di Carlo su tutti) e qualche cosa forse inutile (la borghesia romana che discute di Berlusconi in una di quelle terrazze da arresto di massa), l’effettiva urgenza personale (Martone ha come il bisogno animale di realizzare quest’opera) non sempre corrisponde ad una adeguata urgenza artistica (ma questo è un pensiero personale) e l’utilizzo nell’incipit di Amore che vieni, amore che vai di De André non so fino a che punto sia appropriato.
Michele Placido e Fanny Ardant sono bravi a dare vita alle pulsioni intime di questi due animali immaturi e feroci, innamorati e possessivi, libertini ed incoscienti, ma forse lo spettatore non li capisce fino in fondo. Bisogna aspettare il finale per versare una lacrima amarissima.
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