Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Il regista può essere Bergman, la durata (oltre tre ore) può essere sensibilmente ridotta rispetto alla versione originale per la tv, ma questo continua ad essere un discreto mattone. Atmosfere patinate, luci e colori dosati con maestria, dialoghi, inquadrature, personaggi ineccepibili: eppure che battaglia per arrivare in fondo. La storia è ampiamente dispersiva (in fondo il progetto iniziale per la televisione prevedeva cinque episodi da un'ora: in quest'ottica il lavoro ha certamente maggior senso), ma vista la lunghezza comunque morbosa della pellicola, il fatto è giustificabile; i riferimenti autobiografici del regista - che sarebbe poi il bambino, Alexander - sono inoltre il quid che la valorizza. Ad ogni conto il punto di vista di Bergman sulla famiglia, sulla religione, sulle donne e sugli uomini è già ben noto prima di questo film, pertanto considerabile un sunto della sua opera (e in effetti dopo Fanny & Alexander il Maestro si rifiutò di girare ancora per il cinema, realizzando lavori televisivi e in digitale); non è così sarcastico chiedersi se questo sunto fosse poi necessario. Infine, il film è interpretabile come - anche qui, per l'ennesima volta - un atto d'amore verso il teatro prima ancora che il cinema, verso il regno della fantasia che, nelle parole del padre di Alexander, è il 'piccolo mondo' che imita e cerca di spiegare quello grande, esteriore e concreto.
Inizio 1900, le vicende di una famiglia svedese benestante attraverso gli occhi degli ultimi arrivati, i bambini Fanny e Alexander. La madre rimane vedova (il padre dirigeva un teatro) e si risposa con un pastore, la nonna vedova ha un amante, i due zii ed un turbine di altri personaggi ruotano attorno al nucleo centrale della famiglia, fondamentalmente matriarcale. Immensa dichiarazione d'amore al teatro, sfogo fantastico ed evasione dalla dolorosa realtà.
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