Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Capolavoro. Sicuramente uno dei migliori film degli anni ottanta. "Fanny e Alexander" (dove però Fanny riveste un ruolo abbastanza marginale) è un film di sapore autobiografico sia per quanto riguarda la vita (mi sia scusata la tautologia) sia dal punto di vista della cinematografia bergmaniana. La vicenda del film si svolge tra il Natale del 1907 e quello del 1909, spostando l'azione del film d'una decina d'anni prima della nascita del regista. Gli Ekdahl sono una famigliona borghese che si riunisce intorno alla matriarca Helena. Dei suoi tre figli il più serio sembra essere Oscar, attore e direttore di un teatro cittadino (non lo si dice ma siamo a Uppsala, città natale di Bergman), sposato alla bella attrice Emilie e padre di Alexander, dieci anni, e di Fanny, di poco più piccola. Improvvisamente Oscar muore e dopo un anno la vedova si risposa con un austero vescovo luterano che vive in una casa vuota con la mamma e la sorella, due psicopatiche eternamente a lutto, una zia malata e gonfia, e delle serve una più mostruosa dell'altra, tutte abituate all'ipocrisia e alla delazione. I bambini vivono come segregati da regole che proibiscono loro tutto tranne la preghiera. Fortunatamente la nonna si ricorda di loro e con l'aiuto di un astuto rigattiere ebreo riesce a farli evadere. Nel frattempo, mentre la mamma dei bimbi scappa dalla casa del vescovo, questi muore grazie ai poteri medianici di un ermafrodito che ha letto nel pensiero di Alexander.
"Fanny e Alexander" è un film che va visto - a raccontarlo gli si fa torto - e nonostante che duri tre ore piene si rimpiangono le due ore tagliate dalla versione cinematografica (e divvuddigrafica) rispetto all'originale televisivo di più di cinque ore. Tornano tutti i temi dell'opera bergmaniana: il rapporto tra teatro e vita, il volto e la maschera, la ricerca di Dio e il suo silenzio, la mediazione e gli inganni della religione, la potenza della fantasia, la morte, la malattia, la famiglia, la coppia, l'accettazione della vita così com'è e chi più ne ha più ne metta. Vi sono scene figurativamente eccezionali e che colpiscono il sentimento nel profondo, come i funerali di Oscar, con uno sguardo impagabile tra Fanny e Alexander, mentre questi sta recitando una sua personalissima litania fatta di culi, merda e piscio, oppure le scene ambientate nella casa del vescovo, che ricordano il seicentesco "Dies Irae" di Dreyer. Ma, ripeto, il film deve essere visto per essere apprezzato nella sua interezza. alla riuscita contribuisce un gruppo di attori superlativi, che recitano con una naturalezza tale che non sembrano nemmeno recitare, e raramente si è visto un insieme di interpreti così bravi e tutti all'unisono come in questo film. Ne cito alcuni a caso, quelli che mi sono piaciuti di più: il piccolo Bertil Guve, un Alexander credibile, Jan Malmsjö (forse quello che preferisco), che recita l'odioso Vergerus con accenti di verità, Gunn Wållgren, la nonna che sotto le sottane ha due palle grosse così (unico difetto: sembra più giovane del figlio Oscar), Erland Josephson, l'ebreo di buon cuore, e Jarl Kulle, lo zio epicureo di Alexander. Per curiosità va detto che Elsa, la zia del vescovo, è recitata da un uomo, mentre una donna impersona Ismael, il giovane ebreo che realizza le fantasie omicide di Alexander. Ma attenzione: se gli uomini muoiono, i fantasmi restano e se Oscar, il padre che Bergman avrebbe voluto continua a presentarsi al piccolo Alexander, Vergerus, il padre che invece Bergman ha avuto realmente lo avverte: «Non ti libererai di me».
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