Regia di Seijun Suzuki vedi scheda film
"Tokyo Drifter", questa sorta di pop (art) noir, è, insieme a "La farfalla sul mirino" (qui inserito con il titolo "Il marchio dell'assassino") la migliore opera di Suzuki da me vista. Il regista nipponico nei suoi film utilizzava violenza e sessualità (spesso violenta) come leve purificatrici per/dell'Uomo. Qui, però, ne "Il vagabondo di Tokyo", a differenza del sopracitato "La farfalla sul mirino" la pulsione sessuale non viene proposta e "soltanto" la violenza trova libero sfogo inserita in una vicenda (tipica dei noir) di amore e odio; amicizia e tradimenti; onore e vendetta. I protagonisti sono spesso "cow boy" solitari che vanno incontro alla propria sorte ognuno a proprio modo. Il plus, però, di "Tokyo Drifter" è sicuramente l'impianto stilistico. Suzuki opta (come sua consuetudine) per la sperimentazione ed è molto interessante l'uso che fa del colore. Passa con disinvoltura dal bianco e nero molto contrastato a tinte color pastello, fino a colori saturi (viola, rosso, giallo) che si ergono da uno spazio bianco alienante e quasi artificiale. Tutto ciò non è mero esercizio stilistico, ma serve per consegnare al film quell'atmosfera surreal-grottesca che in più di un'occasione traspare. Suzuki sa "giocare" con il ritmo e questa eccentrica fotografia (spesso in stile pop art) insieme al montaggio e alla regia confezionano un prodotto in cui a pause e "cadute" di tono fanno seguito stacchi improvvisi e fulminee sparatorie (e scazzottate). Non manca, poi, come nel suo meno riuscito "La porta del corpo" di rappresentare la "contaminazione yankee" che il suo Giappone ha dovuto subire. Emblematica la rissa nel saloon che rimanda al cinema western (di basso livello) e dove in maniera leggera (e grottesca) gli yankee vengono cacciati. Come già avevo scritto in un'altra recensione, Tarantino non ha inventato niente; ha solo messo insieme i cocci. Uno di questi portava sicuramente la firma di Suzuki! 8
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