Regia di Mario Bava, Alfredo Leone vedi scheda film
Bava ci regala col film atmosfere inquietanti e ansiogene utilizzando la semplice forza delle immagini, le ambientazioni e le straordinarie soluzioni visive che solo lui sa inventare così bene. Sorretto da una iperrealisticità barocca e decadente, spinge lo spettatore in territori che sfiorano la consistenza irreale dei sogni e delle illusioni.
Negli anni lontani della mia giovinezza, l’horror (insieme con la fantascienza) era uno dei generi che più mi appassionava: davvero credo di aver perso ben poco di quanto veniva distribuito sugli schermi, spesso in estate, e un posto particolare nel mio cuore lo occupava senz’altro (e a ragione) Mario Bava, barocco creatore di realtà sospese fra sogno e immaginazione, visionario regista della trasgressione e dell’ambiguità, capace di annullare con le sue allucinate esposizioni astratte e irrazionali, la concreta possibilità di una interpretazione “realistica” delle vicende rappresentate, spesso narrativamente incongruenti e prive di consequenzialità logica, ma riscattate sempre dall’estro della fantasia inesauribile di questo “mago” della macchina da presa e dal susseguirsi senza soluzione di continuità dei suoi inventivi e vertiginosi virtuosismi che riempivano ogni sua produzione. Adesso questa predilezione si è notevolmente affievolita perché l’attuale degenerazione del genere verso lo splatter tecnicamente inappuntabile fatto solo di effetti e niente anima, che occupa da anni quasi tutto lo spazio disponibile del settore (salvo sporadiche pregevoli eccezioni) risulta ai miei occhi così poco stimolante da non riuscire nemmeno a coinvolgermi nei meccanismi ansiogeni della progressione degli eventi, condizione questa che mi ha fatto allontanare disamorato, perché la mancanza di partecipazione attiva mi costringerebbe a restare un indifferente analizzatore critico e un osservatore distratto spesso appannato dalla noia, che non è certo la maniera migliore per divertirsi e sentirsi appagati (parlo delle produzioni di importazione ovviamente, perché da tempo l’Italia è colpevolmente assente in questo campo, forse anche a causa del fatto che, se non vado errato, con le vigenti leggi non sono previsti rientri ministeriali per chi decide di affrontare l’impervio percorso della paura che più di altri richiederebbe allo stato attuale delle cose, tecnicismi funambolici certamente costosi per fronteggiare la concorrenza, difficilmente adesso compensabili solo con la qualità della “creatività intelligente”, per altro diventata ormai merce assi rara, e allora si preferisce dedicarsi ad altro per non correre rischi di “bancarotta”). I tempi di Bava erano invece davvero tutt’altra cosa, anche se gli investimenti erano ugualmente marginali (ma non è certamente un caso se nonostante gli scarsi mezzi di cui ha sempre potuto disporre, è riuscito ugualmente a regalarci, grazie alle consistenti “nicchie” che il mercato riservava a questo segmento, piccoli gioielli che hanno fatto scuola, fino a farlo diventare una personalità fra le più celebrate, un maestro indiscusso le cui qualità sono riconosciute e apprezzate ben oltre i confini della nostra nazione (vedi anche il recente omaggio “innamorato” dedicatogli da Tim Burton in “Il mistero di Sleepy Hollow”, qualcosa di più di una semplice “citazione”). Devo confessare comunque che gli sono stato più fedele (e in questo davvero fino al termine della sua carriera, per niente scoraggiato dall’avvertibile annebbiamento dell’inventiva rilevabile in molte opere dell’ultima fase) per la produzione fantasy che per quella più propriamente orientata verso il “giallo” (che ho trascurato a volte con colpevole negligenza, nonostante che proprio lì si nascondessero alcune delle opere di maggiore impatto proprio sotto il profilo delle invenzioni creative, sempre e comunque oltre la banalità delle trame di riferimento, sulle quali sono state costruite opere fondamentali della sua filmografia come “Cinque Bambole per la luna d’agosto”, “Il rosso segno della follia” o “ Sei donne per l’assassino”). Sul versante horror non mi sono invece fatto mancare niente, nemmeno quando ormai più grandicello, avevo sviluppato un diverso spirito critico che mi faceva a volte essere più guardingo ed “esigente” e cominciavano forse a non essermi sufficienti le sole atmosfere per appagarmi pienamente, come succedeva una volta. Così, nemmeno nel 1972, già trentenne, volli sottrarmi alla visione della “Casa dell’esorcismo”in uscita proprio quell’anno, pur avendo avuto notizia delle vicissitudini distributive che avevano determinato un indiretto disconoscimento dell’opera (nonostante il mantenimento della firma) da parte del regista che non facevano presagire niente di buono. Il risultato della visione fu in effetti poco soddisfacente, e tale – e lo rammento con particolare dispiacere – da farmi provare una cocente ed irritata delusione piena di rammarico per quel pasticciaccio che mi era stato propinato nel quale, salvo alcuni flash ”discontinui” e incongruenti, non riuscivo a ritrovare niente delle fascinose ambiguità spesso causticamente ironiche che rappresentavano una caratteristica così peculiare e personale di Bava, il colpo d’ala del maestro, riscontrabile anche in opere minori, imperfette e meno riuscite, quasi di transizione direi, come per esempio “Gli orrori del castello di Norimberga” solo di pochi anni antecedente a questo, e quindi più assimilabile per un confronto diretto. “La casa dell’esorcismo” sembrava infatti un “posticcio” e maldestro tentativo di cavalcare l’onda con scarsa inventiva e fantasia, assoggettandosi (in malo modo) alle regole delle nuove tendenze “modaiole” dopo i clamori suscitati dall’"Esorcista" – e il cinema di derivazione fu davvero tanto in quel periodo - per cercare di “acchiappare” il successo della scia, sul confine della linea tracciata. In effetti si trattava di un “rimontaggio apocrifo” del girato con l’aggiunta di una fetta consistente di scene realizzate ex novo dal produttore senza l’approvazione di Bava (persino con l’inserimento di nuovi attori) capace di “ammazzare” ogni velleità autoriale e di mortificare, banalizzandolo, proprio il versante fantastico della narrazione, ma si sa le regole del mercato sono implacabili (come la voglia di non fare bancarotta dei finanziatori) e non lasciano margini di intesa percorribili per una soluzione condivisa. Credo che il progetto originale, la pellicola esattamente montata secondo il “Bava pensiero” e limitata al suo girato (operazione portata a termine in tempi molto più recenti e successivi alla sua morte) sia stata (ri)conosciuta (e apprezzata) prima in America – dove il regista ha sempre goduto di maggiore credito - che in Italia. Ne fu editata comunque anche qui da noi una videocassetta che fu presentata sul mercato con un prezzo di vendita decisamente elevato che più volte sono stato tentato di acquistare, desistendo poi per una ragione o per l’altra, ma senza provare in fondo forte rammarico per la mancanza, proprio perché ormai il mio interesse era diventato secondario. Sono infine arrivati i canali satellitari e con questi, la necessità di disporre di maggior materiale visivo per riempire i palinsesti nei vari segmenti… e allora anche “Lisa e il diavolo” versione originale integrale - è approdata finalmente anche sugli schermi (caserecci) di Sky, ed è stata successivamente distribuita in dvd (persino attraverso il canale delle edicole, grazie a De Agostini). Ma io guardo poco la televisione e non ho la parabola per captare il satellite, e seguo per altro anche con scarso interesse le uscite in edicola perchè spesso foriere di cocenti arrabbiature – più che per la qualità, per gli extra sovente incompleti o assenti - e quindi anche queste occasioni non erano state da me colte al volo. Il recupero è avvenuto quasi per caso, grazie a una bancarella settimanalmente presente al mercato di Sant’Ambrogio di Firenze che ha aggiunto da poco al settore libri anche quello dei dvd e che ripropone a prezzo “stralciato” (10 euro per tre dvd) una massa infinita di “supporti editoriali” invenduti e restituiti al mittente che in qualche modo devono essere riciclati: questa volta non potevo sottrarmi alla tentazione, anche perché l’eventuale delusione sarebbe stata compensata dalla limitatezza dell’esborso, ed ho finalmente “acquisito e visto” (non senza un leggero batticuore) il “vero” film pensato da Bava così come era stato concepito (ma forse anche qui c’è una insistita scena erotica con la Koscina che potrebbe non essere di Bava a quanto si dice). La mia valutazione “postuma”? Certamente meno “eccezionale” di quanto si vociferava un tempo, ma comunque “notevole”: “ricostruito" sul momtaggio immaginato, ritorna ad essere una affascinante e riconoscibilissima “creatura baviana” che ha il suo maggior pregio e interesse proprio nella “ritrovata” capacità di “creare” ancora una volta dal nulla atmosfere inquietanti e ansiogene senza surrogati o “mezzucci”, ma semplicemente attraverso la forza delle immagini, le ambientazioni e le soluzioni visive. Per comprendere meglio cosa intendo dire, è sufficiente analizzare l’inizio con il passaggio dalla solarità affollata della piazza di Toledo all’incubo onirico delle sequenze immediatamente successive che ci trascinano “facendoci smarrire” insieme alla protagonista, della quale condividiamo lo spaesamento e il disagio, nei meandri di quelle stradine contorte e solitarie, dove cominciano a materializzarsi le presenze sinistre dei primi straordinari incontri di questa “giostra animata” fatta di fantocci e bambole, manichini e pupazzi (uno dei temi spesso ricorrenti nella filmografia del regista) simulacri inquieti di personaggi inconsapevoli – forse già trapassati – costretti a rivivere all’infinito, dentro quella villa piena di misteri nella quale approderemo poi, il macabro rituale delle azioni criminose che hanno preceduto la loro morte, per una “espiazione” senza fine di trasgressioni e colpe, sotto lo sguardo vigile e sornione del “burattinaio”, un insolito, accattivante diavolo col lecca-lecca ben restituito nella sua ambiguità demistificata e irriverente dalla divertita caratterizzazione di Telly Savalas). E l’inconsapevole ineluttabilità che travolge Lisa, nonostante l’insufficienza drammatica di Elke Sommer, gloria appannata e in declino, uno dei tanti “residuati bellici” riciclati Italia all’inseguimento di una impossibile e tardiva “resurrezione artistica”, invade progressivamente anche le nostre anime, ci fa sussultare a nostra volta, provare la tangibile emozione dello sgomento fino a renderci irrequieti e fibrillanti con le pulsazioni in crescendo, pur nelle macroscopiche incongruenze di un racconto “incerto” dai molti “buchi”, ma sorretto dalla consueta opulenza di una iperrealisticità barocca e decadente, capace di spingersi spesso negli estremi territori degli eccessi paranoici che sfiorano la consistenza irreale dei sogni e delle illusioni (come nella splendida scena del risveglio di Lisa nella camera diventata un bosco favoloso e fiabesco, uno dei punti "magici" di tutta la pellicola), fra zoommate mozzafiato che generano da sole il sottile sconvolgimento sensoriale del terrore anche quando il movimento arriverà ad inquadrare dettagli sicuramente importanti ma “secondari” e immediatamente non percepibili come “sinistri”. Il cinema di Bava (e nemmeno questa pellicola si sottrae al “metodo”) è un cinema costruito sulla labilità inconsistente delle immagini riflesse di personaggi e ambienti che ci vengono restituiti rispecchiati da “insolite superfici riflettenti” come una macchia di vino colata sul pavimento o i frammenti di un bicchiere, il vetro di un orologio o persino il coperchio di un portacenere in argento posato su un comodino, ed è così che il regista ancora una volta gioca con la sua storia e i suoi personaggi, come fa il gatto con il topo, ma senza dimenticare l’ironia sottile che sempre accompagna il suo percorso che anziché attenuare, determina un accrescimento nella tensione progressiva che spesso quasi blocca il fiato in gola, fra atmosfere pregne di malsano e perverso erotismo, presagi di morte ed estremizzazioni violente di follia. Memorabile la sequenza finale (eguagliabile per molti versi al virtuosismo di uno dei momenti clou di “Operazione Paura” certamente uno dei capolavori assoluti del regista, quello indimenticabile della “fuga” attraverso stanze tutte uguali che si susseguono all’infinto, che portano Giacomo Rossi Stuart - padre di Kim - ad inseguire se stesso o il suo fantasma fino a raggiungersi e toccarsi) quando tutto sembra essersi felicemente concluso su quell’aereo che improvvisamente si allunga a dismisura, risulta vuoto e silenzioso, che Lisa “deve” percorre alla “ricerca della verità” fino ad imbattersi nuovamente nei cadaveri (o nei manichini) dei personaggi che hanno popolato l’incubo dentro al quale si trova lei stessa, così da rendersi conto della ciclicità senza conclusione di una storia circolare che non si esaurisce e nella quale è nuovamente (e drammaticamente) al punto di partenza.
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