Regia di Werner Herzog vedi scheda film
"La realtà estatica, l'estasi della realtà." Così Herzog definisce il suo credo cinematografico, un senso profondo da ricercare attraverso le immagini, al di là delle immagini. Non chiamatelo semplicemente documentario, non si tratta solo di questo. Il rito buddista che dà il titolo a quest'opera è basato su uno dei concetti chiave della religione-filosofia orientale: l'impermanenza. La certosina cura con cui i monaci preparano il mandala, una rappresentazione dell'universo (interiorizzato) composta da disegni geometrici formati da milioni di granelli di sabbia accuratamente disposti su un piano, una vera opera d'arte, viene spazzata via al termine del suo compimento proprio per ricordare la fugacità di ogni fenomeno. I pellegrini che accorrono a migliaia incarnano il senso di forte comunione e di necessità di sacro e divino da parte di quei popoli lontani. Solo apparentemente distanti però, perchè nell'ultima parte del film ci si ritrova in Austria con tanto di Dalhai Lama in persona. Il regista incontra la massima autorità buddista e tibetana in una rapida, simpatica, quanto significativa intervista. Due le sequenze madre: il monte sacro Kailash con i devoti a percorrere su gomiti e ginocchia chilometri e chilometri di sentieri di nuda terra, sapientemente commentata dalla magnifica musica dei Popul Vuh e Florian Fricke; infine l'ultimo monaco seduto in solitudine in mezzo a centinaia di cuscini vuoti nella grande sala dell'adunanza. Suggestivo.
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