Regia di Robert Altman vedi scheda film
L’incipit, attraverso gli straordinari titoli, dal sapore ‘cronenberghiano’ (Spider) creano un’aspettativa diversa da quello che il film è in sé, nonostante lo stesso regista, Robert Altmen, si sforzi di dire che The company “non è un documentario”.
E allora, lo potremmo definire “cronache di un anno di lavoro del Joffrey Ballet di Chicago”, visto che di questo si tratta: delle prove, degli spettacoli, della ricerca di sponsor, ma soprattutto del sudore e del sacrificio, a volte inumano, ai quali si sottopongono i ballerini della prestigiosa compagnia di danza americana, nel pieno della sua stagione artistica.
Robert Altman, di cui ricordiamo il suo precedente e bel lavoro, Gosford Park, un giallo ambientato nella campagna inglese, torna alla regia di un film completamente insolito, scegliendo ambienti e soggetti del tutto nuovi, per lui e per molti dei suoi spettatori, quelli della danza. Un mondo di cui conosciamo solo l’aspetto più bello e finale, quello dello spettacolo, e non piuttosto ciò che c’è stato prima dello spettacolo (l’avan-spettacolo), a prescindere, naturalmente dall’interesse del momento tutto italiano, legato alla peggiore danza-spettacolirizzazione-mediatica di cui la Mediaset ogni giorno, a colazione-pranzo-e-cena ci dà la peggiore idea di quell’arte nobile, che è appunto la danza. A tal proposito, lo stesso Altman propone una giusta differenza (pur non conoscendo le trasmissioni della De Filippi & Company. Speriamo!), tra “ballettisti, che sono la morte del balletto” e i ballerini.
Il film, nato soprattutto dalla passione della protagonista, Neve Campbell (ballerina presso il National Ballet of Canada), che voleva raccontare la vita quotidiana di una compagnia di danza, offre allo spettatore una ‘biografia’ di un ensemble che gode ottima fama negli Stati Uniti, anche se nessuno prima d’ora sapeva delle prove quotidiane, dei movimenti ed esercizi monotoni, atti a forgiare il fisico dei danzatori, le difficoltà, gli infortuni frequenti, le piccole invidie, gli intenti mai sopiti. Con lo sguardo sempre differente, intravediamo la compagnia da molti punti di vista: ora dalla platea, poi dalle quinte, dalla così detta ‘quarta parete’, da cui l’’occhio del regista’ scruta la fremente attesa di ogni ballerino, prima del suo ingresso in scena. Altman, come un abile artigiano, non manca di svelare il funzionamento dell’impianto delle macchine, delle luci e del sipario, in genere. Ma visto da un angolazione del tutto particolare, mai scontata. Altrimenti impossibile, almeno se si è dalla parte dello spettatore. Anche il modo in cui sono filmati e soprattutto montati (in modo incrociato tra prove e spettacolo) i balletti, esprimono la delicatezza dello sguardo prima e dei movimenti della stessa macchina, di un uomo che di mestiere fa il regista, costruendo a suo modo ‘coreografie’, in cui ciò che conta “non sono i passi, ma ciò che c’è dentro” l’animo del ballerino. A dimostrazione di tutto ciò, basti ricordare la coreografia del balletto con le ombre cinesi: l’interesse non è per il risultato, per l’ombra in sé, quanto per chi la produce. Il corpo umano e ballerino, che il regista insegue fin nel suo animo.
E’ anche per questo che The company non si può paragonare a nessun altro film sulla danza. Non piacerà a chi piace Buona domenica, Save the last dance, o altri prototipi simili. Per gli amanti di questo genere, è bene che rimangano a casa, magari continuando ad optare per Garison, Steve Lachance, Maura, Clady… perché Altman va seguito in punta di piedi. Volando alto.
Giancarlo Visitilli
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