Regia di Per Fly vedi scheda film
Il regista confessa di amare Ken Loach e di ispirarsi a lui per la sua trilogia (L’eredità è la seconda parte). Ma a noi quest’ottimo film ricorda Shakespeare e il Padrino parte seconda. Per non parlare degli attori: il protagonista, Ulrich Thomsen, crocicchio somatico di Sting e Lars von Trier (che produce), già apprezzato in Festen e nel bondiano Il mondo non basta, non potrebbe mai abitare le cinesociologie dell’autore britannico: troppo altero e aristocratico; e la straordinaria Ghita Nørby (sua madre nel film) è di sanissima e solidissima tradizione bergmaniana. Insomma: L’eredità (che in Danimarca ha vinto ogni premio e ha battuto, al botteghino, Dogville) è la discesa agli inferi del rampollo di una ricca famiglia svedese specializzata nella lavorazione dell’acciaio. Il pater familias si impicca e il primogenito, nel frattempo riparato giustamente a Copenhagen per godersi la vita in compagnia della sua donna (un’attrice che sogna di recitare in Romeo e Giulietta) e dei suoi soci in prelibati affari (ristoranti raffinati rigorosamente antinordici), viene richiamato all’ordine dalla spietata genitrice, mantide senza scrupoli in grado di cacciare il genero in due secondi, il braccio destro del defunto marito in mezz’ora e un paio di centinaia di operai in qualche settimana, pur di salvare il futuro della ditta. Anche se il film affronta coscienziosamente le nuove, ciniche, brutali, perfide, strafottenti leggi del neocapitalismo (in nome della fusione con un’azienda francese, tutto è lecito), la densa pellicola inchioda soprattutto per i risvolti psicologici, le fermate intermedie, le necessarie sfumature, le dolorose rinunce amorose. Attori da urlo e uno sguardo netto che promette e mantiene rigore morale ed eleganza e(ste)tica.
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