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Possession

Regia di Andrzej Zulawski vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Possession

di ed wood
4 stelle

Sonora delusione per me questo "Possession". Erano anni che ne sentivo parlare come di un cult irrinunciabile, anomalo, fuori dagli schemi...E invece, eccomi di fronte ad un film che prometteva suspence ed illuminazioni e che invece riserva solo noia e confusione. E' una storia di possessioni, sdoppiamenti, mostruosità. Vi si evocano l'ossessione erotica e l'incubo identitario di Hitckcock, così come i teoremi del desiderio di Bunuel, l'ambiguità malsana di Friedkin, la straniata ironia delle varie "nuove onde" (compresa quella polacca): il tutto girato alla maniera di Skolimowski (appunto), rinunciando alla dialettica del campo-controcampo in favore di una mdp in perenne movimento vertiginoso, sempre presa ad avvolgere e strangolare i suoi malcapitati personaggi. Appunto, i personaggi: chi è il protagonista? Chi possiede e chi è posseduto? Verrebbe da pensare che sia la meravigliosa Adjani a vestire i panni della classica donna ambigua, angelo del focolare che nasconde dietro un volto candido inconfessabili ed aberranti segreti. E' lei quindi ad essere posseduta? Ok, ma da chi? Dal mostruoso demonio con cui fa l'amore? Oppure dallo spavaldo Henrich, maturo playboy a cui la pasticciata sceneggiatura vorrebbe affibiare niente meno che la parte di un ipotetico, irresistibile spirito divino?! Oppure la bella Anna è posseduta dal nevrotico marito, che non è nè un Diavolo nè un Dio, ma semplicemente un uomo oltremodo geloso e violento? Oppure sta a vedere che invece è proprio il marito, Mark, ad essere, fin dall'inizio, posseduto da chissà quale forza, forse dall'amore stesso. Persino Henrich, a giudicare da ciò che dice e da come si muove, pare posseduto: dalla droga però, prosaicamente, almeno questo è ciò che crede Mark. A complicare ulteriormente le cose intervengono i doppioni dei due coniugi: la Adjani si incarna nella parte di una dolce e sexy maestra d'asilo, su cui Mark evidentemente proietta la sua idea di donna, mentre il sosia di Mark fa capolino nel convulso ed imbarazzante finale (dove si affastellano una serie di improbabili figurine prive di sotanza scenica, simbolica od onirica). Il film non funziona per niente e sconta alcuni basilari problemi di fondo. Anzitutto, scatta subito all'occhio l'overacting degli interpreti, che sin dalla prima sequenza perdono il controllo dei propri gesti e si lanciano in pantomime che nessuna crisi familiare, sentimentale o tossicologica può giustificare! E sono tutti così: Anna, Mark, Heinrich. Tutti "posseduti" dal virus di una recitazione sovraccaricata. Ora, i casi sono due: o Zulawski non ha mai avuto il controllo su ciò che stava facendo, oppure se (come credo) si tratta di una scelta consapevole, allora credo sia stata la scelta sbagliata (o quantomeno, mal governata). Cosa voleva ottenere? Qual è il senso di un simile approccio? L'ironia? Lo straniamento grottesco? L'onirismo? Ammesso che il motivo fosse uno di questi, mi chiedo: ma a che pro? Perchè raccontare una vicenda del genere in questo modo? Per beffarsi, forse, di un pubblico che si attendeva la consueta discesa negli abissi della follia e dell'orrore, già esperita nel decennio precedente in diversi film USA "posseduti" (L'esorcista, Carrie, Shining)? Solo proporre una lettura "europea" di un tema molto "americano"? In ogni caso, è venuto fuori un pasticcio, che non regge nè come farsa, nè come viaggio allucinato, nè come melodramma estremo, nè come riflessione filosofica...tutte possibilità che Zulawski persegue, ma naufragando in un oceano di dialoghi irrisolti, tempi filmici di scarsa brillantezza, risvolti narrativi decisamente tentennanti e prolissi. Poi c'è un altro discorso da fare. Qualcuno forse può lodare il film per la sua viscerale fisicità, per il carattere "performativo" di molte sequenze: ed effettivamente la gestualità estrema dei personaggi e sequenze come quella della Adjani "posseduta" in metropolitana lasciano il segno, ma non si integrano in una sostanza filmica che quindi rimane inconsistente e ripetitiva. Il cinema non è teatro è non è nemmeno body-art o qualsiasi altra arte performativa. Il cinema vuole la dinamica, il movimento, lo sviluppo, anche quanto adotta forme circolari (Kim Ki-Duk, McQueen) o affrescate (Fellini, Altman); per essere espressivo "come film", deve comportare una qualche forma di progressione del senso nel Tempo. Tutto questo manca in "Possession": la riproposizione ostinata di sequenze di delirio psico-fisico da parte dei vari personaggi non causa nessuno shock, poichè a furia di battere sempre sullo stesso tasto si diventa insensibili. La mostruosità spaventa quando è rara, sporadica. E in questa direzione, purtroppo, vanno anche i vorticosi carrelli, riproposti in ogni sequenza fino a diventare retorici, senza la misura, la finezza e l'intensità del referente Skolimowski. "Possesion" regala momenti suggestivi (la Adjani ripresa dall'altro mentre mugugna di fronte al crocefisso, l'appartamento incendiato con la vecchia matta che ridacchia; il pedinamento del detective lungo le strada di una Berlino ancora divisa dal Muro), ma fallisce sia come libera fantasia grottesca (il "Gozu" di Miike) sia come rebus psichico (INLAND EMPIRE di Lynch), ristagnando nel girone delle occasioni mancate, dei barocchismi senza costrutto e senza genio.

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