Regia di Sergio Castellitto vedi scheda film
Timoteo e Italia se ne stanno silenziosi, su una scala mobile. In moto e fermi. Lui accarezza, stringe, afferra e si aggrappa al viso di lei. Il loro amore rancido, sudato, bagnato, violento, disperato, disgraziato, tenero e assoluto è come quella carezza. Un amore violento e forte, ma non abbastanza violento e forte da fermare il tempo. I due protagonisti di questo melodramma borghese che deflagra in una periferia squallida, in una casetta abborracciata e schiacciata tra palazzoni scheletrici, tra strade sterrate, buste di surgelati, supplì, bicchieri di vodka, partite a calciobalilla, si preparano ad un’altra separazione e, come sempre, non sembrano pronti. Come gli amanti dei miti che non smettono di amarsi. Mai. Come chi all’abbandono, all’inferno, alla fine non si abitua. Come chi conosce il lutto e lo nega. Conosce la passione che divora l’anima, svuota gli occhi, uccide, annichilisce. Un’emorragia cerebrale che inonda il cervello o seppellisce i ricordi sotto uno strato sottile di terra fresca. La testa di Angela, la figlia adolescente di Timoteo, sul tavolo operatorio per un intervento difficilissimo dopo un incidente in motorino, e quella del padre, in attesa in un corridoio, combattono per sopravvivere. Mentre la pioggia bagna un fantasma seduto all’aperto e con una sola scarpa rossa. Non muoversi, stare fermo è un’invocazione interiore, una preghiera, un sibilo angoscioso, un’imprecazione rivolta al cielo e ai muri della prigione di una vita sterile e misurata, protetta da spirali, da feste noiose,da bianche case al mare, da bugie, da solitudini confidate ad una sconosciuta dal balcone di casa, da convegni medici, da confidenze, da ventri gonfi di embrioni abortiti, da camici e guanti sterilizzati. Chi apre chirurgicamente i corpi, guarda stupito il fiotto del sangue e traghetta le persone tra la vita e la morte, non ha imparato a usare il bisturi sui tessuti delle emozioni. Tra queste mura che affondano in un passato straziato da altri abbandoni si apre, in un pomeriggio umido e afoso, una falla scrostata e profonda. Uno stupro diventerà un amore malato, accende e si avvita una carnalità primigenia e spietata. Timoteo azzanna ed è dilaniato da Italia, una donna derelitta, brutta, sgraziata, docile. Dentro di lei il protagonista, con la sua viltà e le sue improbe debolezze, si perderà e non avrà più pace. Sergio Castellitto (interpreta magnificamente le ambiguità di Timoteo) si aggira, con bellissime intuizioni visive e inquadrature strazianti, nelle pagine del romanzo della moglie Margaret Mazzantini e mette in scena, aiutato da una straordinaria Penélope Cruz, in un ruolo drammatico che resterà incollato nel suo dna, (anche gli altri attori sono molto bravi) con qualche febbrile eccesso di regia, i battiti, le vertigini, le faglie, i crepacci orridi, le solitudini, i tormenti, l’incoscienza e gli avvilimenti dei personaggi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta