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L'idiota

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su L'idiota

di EightAndHalf
8 stelle

Sentire troppo. Kameda sente troppo quello che sentono le altre persone, glielo legge dal volto e soprattutto dagli occhi. Kurosawa, che sempre ha fatto un cinema che vive per sua stessa grammatica delle percezioni dei suoi personaggi, tenta la strada del melodramma per scavare nella realtà di emozioni normalmente invisibili. Quasi capovolgendo la sua usuale etica - di montaggio, di regia, di ritmo - che lo vede scoprire i lineamenti di un evento spoliandone i meccanismi più profondi (il rapimento di Anatomia di un rapimento, l'indagine incrociata di Rashomon, le strategie militari di Sanjuro), qui ad essere denudata è l'emozione dei protagonisti, con un candore mélo estremo e parossistico, che lo porta a diluire i tempi e a slabbrare i ritmi. Non vengono meno le sue usuali scelte registiche, a partire dalle scelte prospettiche da "dietro la nuca" fino alle composizioni quasi teatrali, ma sono stavolta messe al servizio di un'opera quasi lirica (la Traviata è citata esplicitamente) in cui ogni situazione è stressata, ingigantita, romanticamente enfatizzata fino allo spasmo e al delirio. 

 

Kameda rintraccia i drammi delle persone dai loro occhi: riconosce Taeko perché i suoi occhi le ricordano un giovane condannato a morte dal suo passato; coglie la minaccia di Akama dagli occhi che lo scrutano attraverso lo spioncino della porta; comprende l'angoscia di Ayako da un riflesso fuoricampo. A poco a poco Kurosawa traduce questa "sensibilità estesa" di Kameda nella necessità estetica di rendere visibile l'invisibile dell'emozione: Kameda vede quello che non potrebbe vedere, un riflesso gli fa osservare il volto di Ayako anche se lei aveva provato a sfuggire al suo sguardo arrivandogli alle spalle, e riuscirà a sentire e poi a vedere il cadavere di Taeko nonostante un paravento, una tenda e il buio pesto. La "sensibilità estesa" di Kameda è la tragica utopia del cinema di Kurosawa, quella di poter "vedere" secondo una logica che la vita non ci consente. 

 

Se infatti nella prima parte, nel tentativo di tradurre Dostoevskij, il film non sembra prendere una decisione fra la didascalia, la voce fuoricampo e l'ellissi tramite rapida transizione, non appena Kameda "riconosce" gli occhi di Taeko tutti quegli stessi meccanismi cadono in frantumi: la transizione connette eventi immediatamente successivi, trasformando le ellissi in singhiozzi; la didascalia è al massimo una lettera che diegeticamente viene letta per rompere gli indugi e scavare nei sentimenti; la voce fuoricampo è quella degli stessi personaggi che parlano mentre altrove succede altro, a loro insaputa. Dalla commistione di queste scelte, il film fa accesso a tutti i segreti del cinema, quelli che permettono di modellare la grammatica secondo le storie che si vogliono raccontare. 

 

Il film ha in nuce il Bergman più maturo e il Fassbinder più crudele. Bergman è nello sguardo oltre la camera, in Toshiro Mifune che vede una scena fuoricampo come Harriet Andersson in Come in uno specchio una decina d'anni dopo, e nei primi piani sovrapposti che tornano in Persona; Fassbinder è nel ghirigoro estetico, nell'ostacolo visivo di matrice sternbergiana (anche floreale, come nella sequenza più tenera di tutto Fassbinder, nel bar di Otto ore non fanno un giorno), che qui è il fiore, appunto, che copre il volto di Ayako, ma anche un lampadario, una finestra, la testa di un personaggio. Kurosawa rotea fra i personaggi come in Roulette cinese, ma il dramma che qui si consuma forse è totalmente capovolto: non sono ancora personaggi che non si amano affatto, ma sono personaggi che si amano troppo e cercano di manipolarsi a vicenda (specialmente Akama, Taeko e Ayako nei confronti di Kameda), cercando di modificare un destino fatale che sembra inattaccabile. 

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