Regia di Douglas Sirk vedi scheda film
Avevo “scoperto” Kociss e il suo “indissolubile” interprete, Jeff Chandler, intorno ai 9 anni (rimanendone immediatamente affascinato, come quasi tutti i ragazzi della mia generazione).
L’occasione di questo (per me) straordinario incontro che potrei definire “amore a prima vista”, era stato fornito da Delmer Daves, e dal suo bellissimo, e ancora oggi imprescindibile, L’amante indiana, se non proprio il primo (lo precede per esempio su questa insolita strada controcorrente, l’altrettanto eccellente Il passo del diavolo di Anthony Mann) certamente quello che ha maggiormente contribuito - ha lasciato più tracce nell’immaginario collettivo - a “ribaltare” quasi a 360° l’ottica che fino a quel momento aveva praticamente dominato l’epopea western e che assegnava all’indiano “selvaggio” assetato di sangue, il ruolo del “cattivo”, della “mala erba infestante” capace di nefandezze infinite, e ai bianchi la veste inossidabile del positivismo senza macchia e senza paura (quell’”arrivano i nostri” atteso sempre come momento salvifico e che si identificava spesso con il suono della tromba di quello che definivamo il 7° Cavalleria), che avevano il compito “morale” e il “dovere” istituzionale di “estirpare” quel male per civilizzare e rendere vivibile una terra ancora selvaggia ma tanto appetibile come il “far west”.
In genere però, l’atteggiamento che avevamo noi ragazzi (almeno quelli del mio gruppo) nonostante questa aneddotica negativa, non era conforme al pensiero comune, poiché era invece intriso di una sorta di ammirazione incondizionata verso quel popolo e le sue tradizioni di vita, forse perché vivendo in campagna (e quella del dopoguerra aveva ancora vari sprazzi “selvaggi e boscosi” lungo i torrenti non ancora inquinati che facevano da sfondo alle nostre avventurose giornate) “giocare” agli indiani era il passatempo preferito, che ci permetteva di essere audaci, e di impegnarci in scorribande inconsuete, fra partite di caccia (utilizzavamo senza molto successo frecce ed archi realizzati artigianalmente con corda e rami di albero) o costruzioni di villaggi improbabili scavando nella creta friabile dei balzi che il più delle volte franava rendendo vano il nostro lavoro, e persino in furibondi scontri quasi mai totalmente “indolori” (perché davvero ce le davamo di santa ragione), con quelle che consideravamo le bande rivali (normalmente formate da gruppi di ragazzotti più grandi e prepotenti che si divertivano a provocarci con i loro tiri mancini).
Kociss e la sua umanità, finalmente ricondotta nelle vicinanze della realtà storica che il film di Daves ci aveva restituito in tutta la sua affascinante potenza, non poteva allora che rappresentare per noi il “nuovo” mito di fronte al quale inchinarci, l’identificazione totale con l’epopea della quale tentavamo di riprodurne le gesta, e da quel momento, allora, il capo del nostro gruppo non poté che assumerne il nome, fiero della inevitabile scelta. Incuranti di “corrispondenze storiche” fu assegnato invece quello di Geronimo al suo secondo, mentre per gli altri, fu lasciata ampia libertà di scelta fra i vari Toro Seduto, Aquila Selvaggia, Lupo Solitario e via discorrendo che andavano per la maggiore (io per esempio che “rivestivo” il ruolo dello stregone, perché ero il più gracile e mingherlino e quello che più difficilmente poteva essere impiegato nelle battaglie, poiché in uno scontro sarei stato sopraffatto senza troppa fatica e non sempre c’era qualcuno degli altri disposto a venirmi in aiuto – e rimanevo per questo quasi sempre a “vegliare” il villaggio improvvisato, carico di invidia e di amarezza per questo essere inevitabilmente un po’ relegato ai “margini” dell’azione” - mi ero fregiato del nome , che mi appariva suggestivamente poetico e foriero di chissà quali misteriose valenze, di Mocassino Nero proprio con l’intento di essere originale e di differenziarmi almeno in qualche cosa … (e ancora ero così ignorante da non sapere il mocassino era semplicemente il nome di un tipo di calzatura.. altrimenti non mi sarei sentito così audace e innovativo nella scelta).
Questo per dire che, dopo L’amante indiana, non solo era cresciuto esponenzialmente in noi il mondo fantastico e avventuroso delle quotidianità oziose una volta esauriti gli impegni scolastici, ma anche la spasmodica attesa, ogni volta che andavamo al cinema, di incontrare “nuovamente” l’eroe, che effettivamente ritrovammo ancora, forse persino più esaltante per il nostro immaginario, semplicemente due anni dopo con Kociss, l’eroe indiano di George Shermann, un western certamente di scarsa originalità, ma che aveva il pregio di “costruire” intono all’ormai miticizzato capo indiano, una storia ad hoc, sul solco di Daves, dove ancora una volta lui assumeva il ruolo del “buono” costretto a difendere se stesso, i suoi uomini e la sua terra, dai bianchi invasori. Il trovare il nome di Kociss in una ulteriore pellicola (appunto questo Il figlio di Kociss), ci rese dunque particolarmente euforici, e ci precipitammo infatti in massa a vederlo, appena fu programmato al cinema Giglio del Galluzzo: io approfittai di un passaggio sulla canna della bicicletta di un amico, perché non ero ancora “autosufficiente” (l’esserlo significava a quei tempi semplicemente “possedere” una bici) e farla a piedi sarebbe stata invero troppo lungo e faticoso.
C’eravamo tutti, anche quelli che – ormai più grandicelli perché erano passati altri due anni (e forse più poiché l’approdo di una pellicola in quei fumosi cinemini periferici delle “altre visioni” non era garantito nel corso della programmazione del primo anno di vita, anzi !! non accadeva quasi mai per la verità) - erano già usciti dai “giochi” (ci rimanevano immersi con la fantasia e il desiderio, però, perché non “crescevamo” così in fretta allora, almeno in quel senso, ma certamente molto di più per alti versi) ed erano già stati sottratti alla libertà ludica del divertimento per essere indirizzati operativamente verso il mondo del lavoro… eh, sì, si cominciava presto a faticare in tempi di miseria come quelli… ad imparare “il mestiere” (e dopo la quinta elementare, lo studio per il proletari figli della gleba, era un appannaggio che definire “elitario” significa essere generosi).
Posso dire allora che per noi, in quel contesto, Il figlio di Kociss fu la delusione assoluta, la fine del sogno. L’impatto infatti non fu dei più positivi (potrei dire “devastante”) principalmente perché poi all’atto pratico qui Kociss (e Jeff Chandler) aveva una marginalità visiva persino irritante…(ci si sentiva un po’ “fregati” in fondo) liquidata in poche scene necessarie a definire l’antefatto proprio attraverso la sua “morte” (per noi per altro inaccettabile). Soprattutto però fu il taglio un po’ reazionario ad indispettirci, che trovammo indegno per un film che in fondo comunque parlava di lui e dei sui figli, che immaginavamo dovessero idealmente (e ideologicamente) seguire le orme del padre, mentre invece forse uno solo poteva essere considerato in parte all’altezza della sua fama, come inconcepibile ci sembrava immaginare una faida così profonda fra fratelli che poi ribaltava nuovamente il senso, riportandolo alla tradizione codificata, con quella “morale” fortemente discutibile che sembrava voler completamente contraddire il processo innovativo che - volenti o nolenti - era già in atto, anche se per arrivare allo sdoganamento definitivo di Soldato blu e de Il piccolo grande uomo, solo per citare i titoli più celebri, ci sarebbero voluti ancora molti anni e il disastro Vietnam.
Ci sembrava inspiegabile (indegno) che si potesse ancora (e di nuovo) auspicare la necessaria, totale sottomissione del popolo indiano ai bianchi e al potere “guerresc”o dei suoi soldati, ritornando per contro a disegnare la figura della resistenza residua dei “nativi” assetati di (illecita?) voglia di libertà e per questo decisi a resistere continuando la lotta oppositiva per la “sopravvivenza”, con il consueto alone di primitività feroce delle origini, creature sanguinarie e violente insomma (i “diavoli rossi” come venivano definiti) capaci di “scelleratezze inenarrabili” ai danni del poveri Yankee che avevano la sventura di cadevano sotto le loro grinfie (anche se oggettivamente qualcosa forse era andato persino oltre le intenzioni, poiché il progetto almeno sulla carta doveva essere sembrato molto più positivista, visto che la realizzazione fu portata a termine proprio all’interno di una riserva nell’Utah, e che collaborarono alacremente, interpretando molti ruoli secondari, numerosi indiani veri, e non comparse posticce appositamente agghindate per sembrare tali come accadeva in genere).
Se dovessi riportarmi direttamente alle impressioni di quegli anni, dunque, il giudizio sarebbe totalmente negativo e il pollice inevitabilmente “verso”, tanta fu la rabbia e lo sdegno che mi suscitò. Ma il western è stato (è) uno dei generi più appassionanti che ha attraversato la mia vita, e quindi nella ormai lunghissima carriera di spettatore, mi ci sono imbattuto parecchie altre volte, nell’ambito di corpose rassegne, un tempo riservate al western con molta giustificata generosità.
La prima volta che lo andai a rivedere, fu perché ad attrarmi fu la natura “insolita” per il genere, del regista che lo aveva diretto: il magnifico, infuocato Douglas Sirk per la verità non proprio in sintonia – mi sembrava - poiché più portato a raccontare “fiammeggianti melodrammi” che avventurose storie di cappelloni e “pellirosse. Infatti fu un’altra mezza delusione, anche se (o forse proprio per questo) Sirk si trovasse già ai vertici del mio “immaginario” emozionale. I successivi passaggi, hanno invece un poco mitigato la durezza senza appello delle mie posizioni iniziali (anzi, direi spostandola notevolmente), per esempio aiutandomi a “ leggere” oltre il genere e a capire come Sirk (e certamente questa rimane una fra le sue opere meno importanti, ma a mio avviso e con il senno di poi, non certo fra le meno avvolgenti e interessanti) è riuscito, nonostante il tema “avventuroso” e le esigenze della produzione, a concentrare ancora una volta la sua attenzione sul versante dei sentimenti, cesellando come il suo solito (e in effetti il talento del suo genio e la “capacità introspettiva” che gli è peculiare, emergono soprattutto nelle scene più intimiste) un “essenziale” ma potente poema d’amore che rimanda (come spesso il suo cinema) al tragico più puro. Infatti, al di là delle valenze di carattere… diciamo così… “politico” (o meglio di lettura sociale degli avvenimenti), è in fondo una storia di “gelosie” e di passioni non corrisposte (i due fratelli indiani innamorati della stessa donna) che dona un alone diverso, persino umanizzandole, anche alla azioni “negative” (è il mio giudizio perchè il film forse si esprime proprio nella direzione opposta) di chi decide di “appoggiare” i bianchi, perché da quella parte c’è il “bene” e la salvezza, tradendo in qualche modo la propria terra e la propria gente , persino se stesso e il ricordo del padre, anche se in apparenza può sembrare una decisione non molto difforme da ciò che aveva tentato di fare Kociss nei fil precedenti.
Il lirismo, come sempre nel cinema di Sirk, è potente (basta lasciarsi trascinare sul versante dei sentimenti, ed è “fatta”), le ambientazioni “naturali” sono di quelle che mozzano il fiato (non è un caso che il film sia stato girato in 3D anche se noi lo abbiamo sempre potuto vedere senza alcuna possibilità di valutarne questa “caratteristica” di visione, allora innovativa, ma francamente ancora molto farraginosa e “imprecisa”).
Se analizziamo poi dettagliatamente tutto il percorso, a me sembra adesso che anche il richiamo (il rimando) a Daves - se pur in parte sconfessato nel suo insieme dal messaggio finale non proprio progressista - sia fortemente avvertibile in molti punti come per esempio “nella descrizione, impastata di percezione e di umanesimo, del campo indiano e dei costumi dei suoi abitanti” (“Il Western” – Feltrinelli editore). Cambiamo allora angolazione e alcuni degli equilibri si modificano (per lo meno si modificano le percezioni): mi riferisco all’ispirazione poetica di molte immagini, alla potenza contrastata della tavolozza dei colori, e soprattutto alla capacità di Sirk di esaltare e rendere sublime una scena, puntando sui particolari, soffermandosi sulla plastica bellezza per esempio di un gesto di un movimento, o persino di perdersi nella profondità di uno sguardo… e è proprio grazie a questa sua innata dote di “raccontatore le emozioni” esteriorizzandole nelle immagini, che il film acquisisce nuovo senso e nuovo interesse, come per esempio nella scena che potremmo definire “clou”, quella più “tragicamente sconvolgente (e da molti ricordata) nella quale Taza (Rock Hudson, ancora una volta “curiosamente”utilizzato in un ruolo da indiano) scopre sulla schiena della donna da lui amata (e contesa al fratello), una Barbara Rush di travolgente bellezza, i segni indelebili della frusta che hanno lasciato ampie cicatrici.
Non particolarmente significative invece le prove degli interpreti maschili: Chandler è semplicemente una fugace apparizione, di Hudson forse si ricorda di più il “disagio” del travestimento che non i “guizzi” di interprete affogati nella monolitica compattezza della sua figura, mentre gli altri risultano tutti convenzionali.
Come al solito, per definire il voto, sono costretto a fermarmi a tre stelle, perchè una “scala” di valori deve pur esserci… (ma li mio personale posizionamento ove ce ne fosse la possibilità, sarebbe di tre stelle e mezzo).
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