Regia di Tim Burton vedi scheda film
Edward Bloom ha un grande dono: sa vivere la vita vera come se fosse un’avventura fiabesca, e sa raccontare la sua e altre storie colorandole di tocchi fantastici. Un intero prato fiorito di giunchiglie recise, un “mangiafuoco” iroso che ogni tanto si trasforma in un lupo, due danzatrici cinesi che si congiungono sinuose all’altezza dei fianchi, un villaggio gioioso e spettrale dove il tempo sembra non scorrere e dove le scarpe non servono, una strega minacciosa che può farti vedere com’è che te ne andrai nel suo occhio di vetro. Edward Bloom non mente, vive con grazia il mondo che la sua giovinezza (eterna) gli proietta; Edward Bloom non finge, non cede, non si ferma, non rinuncia a credere in una vita esagerata e incredibile e al piacere di narrarla. Big Fish racconta, per bocca di suo figlio, ormai grande e distante, la sua storia; la racconta «come lui l’ha raccontata a me; non sempre ha un senso e quasi mai è veritiera. Questa storia è una storia così…». Un pesce che nessuno riesce mai a catturare, che puoi afferrare tra le braccia solo se gli offri come esca un anello nuziale, che sembra dotato di una grazia particolare e che sempre scivola via nel suo elemento naturale, mentre sulle sue scaglie si riflettono i bagliori felici e le ombre cupe della fantasia. Questo è Edward Bloom, che neppure la sofferenza degli ultimi giorni di una malattia incurabile riesce a domare, che sa ancora immergersi nell’acqua della vasca da bagno stringendo tra le braccia sua moglie, solare e malinconica, l’amore della sua vita. Film d’acqua, di luce e di neri profondi, capace di passare dal pop squillante degli anni ‘50 e ’60 alle suggestioni inquiete dell’american gothic, dalle creature multiformi del circo alle facce vissute e segnate della vita vera, dal mondo sommerso di Lynch a quello sovraesposto dei Coen, Big Fish è la quintessenza di Tim Burton. Forse è il suo capolavoro; forse è il più bel film dell’anno. Tutti gli esseri fantastici che Burton ha materializzato per noi nei film precedenti, il Pinguino infelice di Danny De Vito e la Catwoman stracciona di Michelle Pfeiffer, l’eccentrico disarmante Ed Wood e il malinconico ragazzo dalle mani di forbice, tutti, qui nella storia di Edward Bloom, trovano il luogo della mente dal quale sono scaturiti e un posto nel mondo al quale ritornare e, forse, avere pace. Non solo perché, come capisce il protagonista in una delle sue bizzarre avventure, «tutte le creature che crediamo malvagie o cattive sono semplicemente sole», ma soprattutto perché «che significa vero?». Vero è un mondo dove il mistero e la fantasia sanno consolarci, dove fare il rappresentante non significa morire ma continuare a viaggiare e fare incontri sensazionali, dove si possono conquistare una donna e molti amici buttandosi a corpo morto nel sogno, e riconquistare un figlio facendogli capire che anche lui è stato parte di quella fiaba. Tim Burton tesse e intreccia con stupefacente fluidità narrativa le storie parallele di Edward Bloom giovane e vecchio (Ewan McGregor e Albert Finney, istrioni “gemelli”, magnifici e vitali), di suo figlio (Billy Cudrup, in una parte sottotono e difficilissima), delle persone che ha incontrato e di come le ha immaginate, della sua vita vera e di come l’ha trasformata in un racconto da fare ai bambini la notte davanti al fuoco (o agli adulti, davanti al tavolo imbandito di una festa). Guidati dagli occhi disincantati e dal cuore incrinato del figlio (che rifiuta di essere come il padre e soprattutto di essere solo una postilla nella sua storia), andiamo e veniamo dai diversi piani temporali e immaginari senza mai perderci, immersi in un flusso di istantanea chiarezza. Pochi sanno raccontare così nel cinema di oggi; pochissimi sanno infonderci tanta gioia e tanta tristezza. E quando alla fine Albert Finney chiede al figlio di raccogliere la sua eredità e di raccontargli com’è che se ne va davvero, siamo noi che con le lacrime agli occhi coloriamo di vita la più bella uscita di scena che uomo possa desiderare: giù al fiume, tra le braccia di amici e affetti, scivolare via ancora una volta nel proprio elemento, con la grazia della libertà.
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