Regia di Ettore Scola vedi scheda film
La bellezza de La Famiglia, quel suo fascino lancinante e un po’ perverso, poggia su una apparente contraddizione: pochi film sono claustrofobici come questo (nessuno si azzardi a citare i due Funny Games, di portata, impatto e finalità totalmente diversi), pochi film sono così aerei nel rappresentare plasticamente l’onda lunga del tempo, la sua maledetta capacità di plasmare e riplasmare le cose ed i sentimenti nonché di agire sulle persone, sulla fisicità e sui pensieri, nonostante la indomita resilienza delle indoli. Stanze, fotografie, televisori, i primi rudimentali ponti con l’immensità del mondo esterno. Senza Internet la narrazione è affidata al ricordo, al ruminare della memoria, ai borborigmi verbali di un patriarca che non giudica ma soltanto racconta, guarda scorrere il fiume degli anni, le persone che lasciano tsunami e quelle che depositano insignificanti detriti, cerca il senso delle cose, prima che Vasco Rossi, chez Castellitto (qui attore imberbe, ultimissima generazione della famiglia di cui al titolo), provasse a metterlo in musica. E il senso sta/stava tutto negli oliati o da oliare meccanismi interni a quell’accolita di persone, nella struttura piramidale e verticistica di un microcosmo di persone, uguali a tante altre e forse a tutte le altre, preda delle medesime meschinità, degli stessi voli pindarici, degli utilissimi compromessi, forti della capacità di accomodare tutto, perché a tutto c’è rimedio, salvo che alla intima onestà intellettuale che dà e sempre darà sofferenza. Scola lo sa, che questa famiglia borghese è un prototipo, non per questo meno rispettabile, non per questo di fulgore meno intenso. Con la realizzazione di quest’opera Scola si fa viaggiatore su un treno, quello che accosta gli occhi al finestrino e viene rapito dalle luci nelle stanze che passano rapide e volano via: in ognuna di quelle stanze c’è una famiglia, c’è una vita, c’è una storia, c’è, infine, la Storia. Tutto sta nel rimetterne insieme i pezzi, nel dare continuità agli avvenimenti che si susseguono impavidi ed anche irrispettosi, nell’elaborare ardite sfumature (con i personaggi che cambiano fisionomia ed età nel corso della stessa scena), nel rubare un significato (un senso?) agli amori che non sono andati come si voleva, al rincoglionimento che si fa incipiente ma che si nasconde bene tra le pieghe di uno specchio, alla serenità raggiunta che non necessariamente vuol dire seraficità e arrendevolezza di spirito.
Commedia all’italiana, quella della specie migliore, quella che elevava sul proprio stemma il blasone della malinconia costruttiva, La famiglia è un inno alla bellezza delle cose che (s)fuggono. Con un Gassman monumentale, il patriarca che si vede vivere ma non si lascia, almeno interiormente, vivere. Talmente mirabile, Gassman, nell’interpretare il tempo ed il suo avanzare che viene il dubbio che sia in realtà lo scorrere del tempo ad interpretare Gassman, indossando quella sua maschera di uomo vinto e avvinto dalla nostalgia delle cose che non verranno più e di quelle che non sono mai state.
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