Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Il professor Carlo (di cui non conosciamo mai il cognome) è l’ultimo patriarca di una famiglia borghese romana che abita in via Scipione l’Emiliano. Gli ottant’anni della sua esistenza messa in scena sono attraversati dalle altre figure familiari che popolano l’appartamento: il padre Aristide, funzionario pubblico e mancato artista; la madre, angelo del focolare e mancata cantate lirica; il fratello Giulio, fragile e precipitoso, che sposerà la fedele domestica Adelina e metterà in fila fallimenti su fallimenti; le tre zie zitelle, Margherita, Luisa e Millina, litigiose ma profondamente legate; lo zio Nicola, ex segretario comunale di Macerata durante il Ventennio; il cugino Enrico, esule in Spagna che sposa una donna francese; il figlio Paolino, insicuro e “che non dà preoccupazioni”; la figlia Maddalena, “che fa carriera in camera da letto”, che lascia il primo compagno Armando, sindacalista, con cui ha concepito Carletto, che soffre per la separazione dei genitori. E le due donne, incidentalmente sorelle, che segnano la vita del protagonista: la rassicurante moglie Beatrice e il volitivo primo amore Adriana, che ama da sempre.
Scandito in nove episodi tra il 1906 e il 1986, introdotti dal carrello lungo il corridoio immutato negli anni, è un film in cui non accade niente ed eppure accade di tutto. La macchina da presa gironzola nell’appartamento e non ne esce mai, si lascia suggestionare per qualche secondo dal libraio ambulante lungo la strada, dal balcone del palazzo di fronte in cui s’è trasferito un abitante della casa due o tre volte dalle scale del pianerottolo per immolare l’amore perduto all’infelicità (i temporali che accompagnano gli addii di Carlo e Adriana). Gli spazi non sono grandi, talvolta la regia pare quasi un accidente in una stanza troppo piccola (i pranzi con gli ospiti, la festa da ballo) o un’intrusa nell’intimità del silenzio (la parte finale), ma l’ambizioso obiettivo è proprio quello della storia ambientata in un’unità di spazio, che non si abbandona alla facilità del mettere in scena fuori ciò che si racconta dietro.
È un film di parola? Probabilmente sì. È un film cechoviano, forse il più cechoviano del percorso di Ettore Scola. I suoi personaggi sono, in vario modo, più insoddisfatti che mediocri, riflettono sulla propria contemporaneità in una dimensione a tratti a-temporale pur imponendosi come espressioni del proprio tempo. Sono delle funzioni, veicolate da attori che si spesso si avvicendano nei passaggi generazionali attraverso espediente artigianali e poetici al contempo, come a voler sottolineare lo scatto di maturità o la stabilità immatura (Beatrice nello specchietto, Adriana nei racconti parigini, Carlo nella correzione dei compiti, Giulio che ha sempre la stessa voce anche da anziano).
Rispetto alle precedenti esperienze di Scola, come C’eravamo tanto amati (capolavoro tripartito), Una giornata particolare (unità di spazio e tempo) e La terrazza (struttura episodica, unità di luogo ma apertura alle esperienze esterni all’unità dei protagonisti), La famiglia è un punto d’approdo e una sintesi di forma e contenuto. Si fonda su una sceneggiatura praticamente perfetta di Scola, Furio Scarpelli e Ruggero Maccari, che non dilata mai l’ovvio o il banale, che calibra bene i tanti personaggi che abitano la storia come in una sorta di ritratto in movimento in cui ognuno è alla continua ricerca del proprio posto nel mondo. Il loro mondo è la casa: solo nella stagione crepuscolare i personaggi si scelgono un punto domestico che li rappresenta appieno, dal tavolo coi colori di Aristide alle camere da letto in cui Susanna e le zie leggono i libretti d’opera ed ascoltano la radio, fino a Giulio che, pur essendo il grande fallito, riesce ad uscire dalla casa. Solo Carlo, nella vecchiaia, si scoprirà indefesso: pittura, rilega libri, cucina, stira, legge, mentre nell’arco del film è sempre stato pigramente statico.
La fotografia interna e privata di Riccardo Aronovich colora il film d’una intimistica malinconia. I soavi e struggenti valzer di Armando Trovajoli regalano grazia ed eleganza. Gabriella Pescucci veste i personaggi con un’attenzione mai leziosa. La scenografia di Luciano Ricceri riesce a cogliere il segno dei tempi mediante cimeli e suppellettili. Il montaggio di Francesco Malvestito conferisce il giusto ritmo ad un film che sulla carta si “muove” poco. Come tutto il cinema di Scola, anche questo film è un’opera collettiva. In cui gli attori hanno, naturalmente, un ruolo fondamentale. Vittorio Gassman, ultimo patriarca della famiglia senza nome, è memorabile per sobrietà, potenza e fragilità. Stefania Sandrelli si emancipa dall’erotismo degli anni ottanta e trasmette candore e serenità. Fanny Ardant, il terzo membro del triangolo, si porta dietro suggestioni truffautiane. Sullo sfondo: Massimo Dapporto, tormentato fratello minore, che lascia il posto al padre Carlo, che in due scene strazia l’anima (“Vuoi un dente d’oro? Oggi l’oro è in rialzo… nell’ultimo mese ho guadagnato solo venticinquemila lire perché mi sono venduto un’intera annata di Topolino”); Ottavia Piccolo sa dosare la semplicità della sua donna umile ed innamorata; gli zii vivacissimi di Athina Cenci, Monica Scattini e Alessandra Panelli e Renzo Palmer; il cammeo di un vellutato Philippe Noiret, in presa diretta.
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