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Primo amore

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Primo amore

di giancarlo visitilli
8 stelle

Non è un film. Perché Garrone, oltre che con il pennello e la matita sa dipingere e rappresentare con la macchina. Non è una storia semplicemente d’amore, ma è il pathos di un amore estremo e mai logoro. Semmai logora. La storia si ispira ad una vicenda di cronaca, come già nell'opera precedente di Garrone (L’imbalsamatore), raccontata da un libro-confessione, Il Cacciatore di Anoressiche, di Carlo Marzolini, anche se per buona parte reinventata, compreso il finale. Lo straordinario Primo amore di Matteo Garrone (unico film italiano in Concorso al Festival di Berlino) è un’opera densa, che merita tutta l’attenzione, anche perché conferma l’indole di un autore capace di evocare le suggestioni poetiche degne solo della poesia del Novecento, da D’Annunzio a Montale.
Gli ossi di seppia di Garrone sono i suoi stessi personaggi, perduti nelle brume vicentine e incontratisi per caso attraverso un annuncio. Interscambiabili negli arcaici ruoli di vittima e carnefice: Vittorio (Vitaliano Trevisan che recita quasi nel ruolo di sé stesso, per l’eccessiva bravura), rasato come uno skinead e con la cadenza e lo sguardo da psicotico, è un piccolo imprenditore, orafo del Nord-est. Accanto a lui Sonia (Michela Cescon: difficile pensare che si tratti della sua prima apparizione sul grande schermo), una creatura già di per sé esile e nuda nel corpo e nello spirito; non bella, ma radiosa nella sua grazia. Il suo peso, 57 chili, è la barriera che separa e unisce lei a Vittorio, il quale ha il potere (di maschio più che di uomo) di condurla sul baratro dell’anoressia, sino ai 40 chili.
I 40 chili di Garrone sono più pesanti dei 21 grammi di Innarritu. Non per la consistenza materiale, piuttosto perché sono il peso di un amore capace di sacrificare i sentimenti in cambio della malattia. Garrone, che aveva già espresso il concetto nel magnifico L’Imbalsamatore, porta all’estreme conseguenze la violenza che si consuma ogni giorno tra le mura di un rapporto felice, in cui il ruolo di chi sottomette e di chi è sottomesso è capace di consolidare un equilibrio in realtà inesistente. Infatti, si ha l’impressione che il regista osi, per riuscire a capire fino a che estremo si possa tirare la corda. Il contesto rimane quello del noir, del sogno-incubo quasi surreale, resi con una formidabile e personale raffinatezza di stile, di cui non v’è nemmeno traccia in nessun altro regista italiano. Lo rivela anche la scelta di aver riutilizzato la Banda Osiris per la colonna sonora, il cui lavoro non è un applicazione alle immagini. Certe inquadrature, scarne e ridotte all’osso come la protagonista del film, non avrebbero la stessa resa senza le corde del violoncello che stridono e vibrano sulle note gravi. Per questo Primo amore si fa sempre più, dalla prima sequenza all’ultima, canto funebre, evocando quell'atmosfera cupa che crea il vuoto intorno alle vite perdute.
Il titolo è stato stra-usato: v’è un Primo amore del ’34 di John G. Blystone; un altro del ’35 di Gorge Stevens; è del ’41 quello di Carmine Gallone; del ’59 con Mario Camerini e del ’78 quello di Dino Risi. Ma nessuno di questi ha la stessa resa e la stessa bellezza di Garrone. Nonostante in Italia il film sia uscito nelle sale il 14 febbraio (troppo furbamente!), Primo amore difficilmente potrà attirare il pubblico delle coppiette “andiamo al cinema perché c’è la Roberts”, anche se la prima frase che pronuncia Vittorio è un lapidario augurio d’amore (non da baci perugina): “Ci sono ancora, perché so che ci sei tu”.
Dire che sia un film di testa, razionale, nemmeno a pensarlo. Piuttosto sembra tutto ‘diretto con la pancia’, per le forti sensazioni di cui si fa portatore. D’altronde la sottolineatura tra “c’è il corpo ma non la testa” è forte. I corpi dei personaggi, forgiati come fantocci di creta, vivono un rapporto d’amore-odio con il cibo, per cui la consistenza corporea si vanifica come la polvere dell’oro. Perde peso, si autodistrugge. Alla fine del film si riesce a dare il giusto peso alle sequenze iniziali: il rosso fuoco stordisce per i primi buoni cinque minuti; l’impressione che se ne ricava è tale da far pensare ad una versione avanguardistica dell’Uccello di fuoco di Stravinsky. Poi, nell’arco dei cento minuti, che scorrono senza accorgersi, tutto acquista un senso e il giusto valore: il confronto tra il peso di un lingotto d’oro e la cenere, ma nel momento in cui si volatilizza. Anch’essa perde consistenza.
Ad un certo punto del film si perdono di vista anche Vittorio e Sonia, nulla è più a fuoco, grazie alla magnifica fotografia che deforma i due protagonisti: ora li schiaccia, grazie all’uso del grandangolo, poi li scarnifica in inquietanti scheletri, grazie ai primissimi piani della pelle, delle vertebre, dei nei. Nulla è celato all’occhio dello spettatore. E pensare che non si tratta di scrittura, di pittura, di scultura. Questo è il Cinema.
Giancarlo Visitilli

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