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Mi piace lavorare - Mobbing

Regia di Francesca Comencini vedi scheda film

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La recensione su Mi piace lavorare - Mobbing

di Jane
8 stelle

Quello della Comencini è un film a tesi, ma evita (quasi) sempre le trappole del “genere” e costruisce una storia che, per quanto esemplare, ha i tempi, le facce, l’attenzione all’aspetto umano giusti per coinvolgere e avvolgere chi guarda nella medesima angoscia e frustrazione della protagonista. “Mi piace lavorare” potrebbe suonare un titolo amaramente ironico, viste le angherie subite da Anna, ma non c’è solo questo aspetto, comunque preponderante. L’abilità della Comencini è quella di riuscire a creare un personaggio a tutto tondo, complesso e completo, un film in cui la denuncia sociale e il tema principale del mobbing si nutrono e radicano di una sapiente, umanissima caratterizzazione della protagonista, persona e non solo lavoratrice, nel luogo di lavoro come nella vita privata. Tutti giustamente sottolineano la perizia tecnica della regista: le sue scelte di rigore stilistico e realismo documentario garantiscono serietà, rispetto e cura nell’analisi del tema, ma aggiungerei che proprio l’aver fuso tutto questo con l’aspetto umano fa del film qualcosa di più di una riuscita pellicola di denuncia politico-sociale. Ad Anna piace davvero lavorare, le piacciono il suo ufficio, i suoi colleghi, è un’impiegata esperta e capace. Se non fosse per la figlia, unico grande amore della sua vita, sarebbe l’ufficio il luogo “felice”, quello di una parziale realizzazione personale oltre che professionale. Il “delitto” commesso dalla ditta, a parte l’insensatezza di licenziare una brava impiegata (ma chi frequenta il mondo del lavoro non si stupisce poi tanto!), è quello di colpirla con l’umiliazione e la tortura psicologica in un luogo di vita e non solo di lavoro. La nicchia confortevole di Anna si trasforma in un inferno, le amicizie in strumenti vessatori, ed è perciò comprensibile – e compatibile con il suo carattere accomodante e vulnerabile – che Anna reagisca con la depressione alla persecuzione e all’isolamento. Il finale, è vero, è sbrigativo, ma questo attutisce la forse troppo ottimistica soluzione sindacale (piccolo omaggio ad uno degli “sponsor” del film?), e non ha dunque la forza di scalfire l’angoscia e il pessimismo della storia, lasciando intatta l’impressione che la vittoria finale non sia davvero tale. Quello che i “padroni” hanno fatto e portato via ad Anna non è risarcibile con un assegno riparatore e forse neppure con la soddisfazione di avergliela fatta pagare. La scelta della Comencini di usare attori non professionisti è magistralmente al servizio del realismo della pellicola, al tempo stesso evitandone i rischi più comuni, come quello di cadere in una non-recitazione che finisce per essere più finta o addirittura ridicola. Sorprendentemente, la recitazione costruita della Braschi si inserisce perfettamente e senza scarti in questo contesto “naturalistico”: probabilmente l’attrice riesce meglio nei ruoli drammatici che in quelli comici (vedi “Ovosodo”), e direi che quelle caratteristiche che a volte sono degenerate in difetti come rigidità, poca naturalezza, sciatteria, qui invece si esprimono al meglio, strumenti funzionali al personaggio e all’integrazione col cast. O la Comencini ha saputo usarla molto bene, o Nicoletta Braschi è davvero brava. Insomma, un film necessario, utile; ben oltre il valore sociale, “Mi piace lavorare” è un bel film, un prodotto artistico, un’opera rigorosa, sincera e crudele, quasi un unicum nella recente produzione italiana, troppo spesso lontana o edulcorante nel guardare al mondo del lavoro e in generale alla vita quotidiana delle persone.

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