Regia di Theo Anghelopoulos vedi scheda film
Il bagaglio del profugo è leggero, perché è fatto di sogni razionalmente ridotti all’osso, tanto scarni da essere poco più che lucidi obiettivi. Gli esodi sono lenti movimenti di massa, ordinati dalla stanchezza e dalla necessità di restare uniti, di sostenersi gli uni con gli altri. Non c’è gioia nella corsa vero la salvezza, né disperazione per un destino che è sì amaro, però è saldamente ancorato alle logiche della storia dei popoli. La poesia dell’esule è vedere la bellezza nell’inevitabile, cogliendo l’avara eleganza di ciò che si giustifica da sé. L’essenzialità è il lato fine della durezza; è il profilo acuminato che si lascia disegnare con la punta di un pennello. Per Theo Angelopoulos il dolore è fatto di contorni, di confini tracciati dalle linee ferroviarie, dalle sponde di un fiume, dalle cime delle colline, dall’orizzonte. La sua geografia sobria e fantasiosa, che confonde e sovrappone i luoghi (il teatro-caseggiato) e trasforma gli uomini e le loro cose in elementi del paesaggio (la piazza della musica, la collina dei lenzuoli), è la metafora di un mondo spostato, in cui nulla è come dovrebbe essere, però tutto può essere immaginato diverso da quello che è. Il vento solleva le acque, la musica agita i corpi, la guerra scuote le anime, ma nulla scompone la terribile armonia della mancanza di senso, in cui il caso regna da tiranno, creando un ordine solo apparente, che nessuno riesce a contrastare. La finta pace dell’impotenza è quella che soffoca le grida interiori, facendo emergere solo i singhiozzi delle emozioni passeggere. Per questo il cinema di Angelopoulos è fatto di singoli sussulti, di verità accennate, mai completamente chiare e sempre scollegate, come un arcipelago di terre semisommerse. L’economia del disincanto ci risparmia l’indagine dell’inconoscibile, accontentandosi di individuare i significati della superficie: nasce così un mappa del reale che è definita dalle tappe di un percorso esistenziale, più che dalle categorie di un’analisi filosofica: un cammino, non una ricerca, in cui i soli criteri di riferimento sono patria/estero, vicinanza/lontananza, amico/nemico, vita/morte. Le drammatiche vicende politiche della Grecia del Novecento, tra comunismo e fascismo, tra divisioni interne e attacchi esterni, riproducono, in grande, la movimentata topografia delle relazioni umane, che si lascia dominare dalla contraddizione, dalla cieca casualità che rende padre e figlio rivali in amore, e due fratelli gemelli avversari sul campo di battaglia. Le distinzioni sono nette, e inesorabili, ma è inutile cercare di capirne le origini: la sorgente del fiume è una meta irraggiungibile, e mentre noi ci affanniamo invano a risalire la corrente, giunge l’ondata di piena che ci travolge, e ci sospinge via.
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