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Mio zio

Regia di Jacques Tati vedi scheda film

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La recensione su Mio zio

di Peppe Comune
9 stelle

Monsieur Hulot (Jacques Tati) vive in un pittoresco e colorato quartiere popolare. La sorella (Adrienne Servantie), invece, sposata con Charles Arpel (Jean-Pierre Zola), un importante dirigente di una fabbrica che produce plastica, vive nella parte moderna della città in un appartamento lussuoso ed ipertecnologizzato. Hanno un figlio, Gerard (Alain Bècourt), che mostra di gradire la compagnia dello stravagante zio Hulot.

 

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Mio zio - Jacques Tati ed Alain Bècourt

 

"Mon oncle" è il primo lungometraggio a colori di Jacques Tati (Premio Oscar come miglior film straniero), al solito percorso da una sana vena dissacratoria e al solito concentrato sull'indagine acuta dello stato delle cose, con una vena comica di prim'ordine che, se fa virare il tutto verso un'accentuazione del lato satirico delle vicende rappresentate, non manca affatto di mantenere una plausibilità d'analisi davvero eccellente. Tra gli aspetti tipici della poetica del grande comico francese, quello che qui è particolarmente sottolineato è il potenziale alienante insito nella "società dei consumi", quella che votatandosi acriticamente al culto del consumismo ad ogni costo ha di fatto subordinato l'uomo all'oggetto. Occorre sottolineare che Tati non ha nulla contro il progresso tecnologico e non è neanche un paladino dell'antimodernismo, tutt'altro, lui certifica semplicemente l'avvenuta perdita di senso dell'uomo cosiddetto "moderno", la cessione di una parte più o meno consistente delle proprie autonome capacità di pensiero per rincorrere l'effimera religione del possesso, il fatto che l'uomo, più che considerare l'oggetto come un mezzo che può accompagnarsi al miglioramento delle sue condizioni di vita, lo ha assurto a fine verso cui tendere per sentirsi parte attiva di un idea indotta di "modernismo". Lo fa accentuando molto il lato grottesco del rapporto che l'uomo instaura con gli oggetti con cui si è circondato, mostrando il corto circuito che ne scaturisce e che capovolge le posizioni di partenza, con gli oggetti che arrivano quasi ad acquistare una vita propria, a diventare padroni della situazione, fino a ribellarsi addirittura a far emergere tutta l'inettitudine dell'uomo e a ridere della loro inconsapevole condizione di "schiavitù" raggiunta. "Mon oncle" ruota tutto attorno alla contrapposizione tra l'ambiente incolore ed amorfo della casa degli Arpel e il vitalismo colorato del quartiere popolare dove vive Hulot, tra la "disumanità" di una casa ultramoderna, dove ogni oggetto è pensato più come un totem da poter esibire (emblematica è la cucina tecnologizzata che fa impazzire Hulot, oppure la fontana del giardino che viene aperta solo quando ci sono visite e anche i viali del giardino che sembrano fatti apposta per impedire che si cammini rilassati) che per la loro reale funzionalità, e l'umanità di un quartiere brulicante di persone e di spiriti vivi. Jacques Tati chiarisce subito le sue intenzioni iniziando il film, prima seguendo l'affannosa alzata mattutina della famiglia, con il marito intento a muoversi come un automa per non arrivare tardi in ufficio e la moglie che lo accompagna devota fino al cancello con una voglia compulsiva di spolverare ogni cosa che la circonda, e poi lasciando l'auto del signor Arpel al parcheggio della fabbrica per seguire un carro trainato da un cavallo che si addentra nel "mondo" di monsieur Hulot, con uno stacco che sembra portarci in un altra dimensione, dove gli animi si placano e gli occhi si riposano, dove la fretta lascia il passo alla calma e la smania di apparire alla naturalezza dell'essere. Ci sono il fruttivendolo e il fioraio, il panettiere e le massaie, adulti affaccendati e bambini che giocano per strada, insomma, ogni cosa è al posto in cui deve stare, coi pregi e coi difetti che sono dovuti alle cose dell'uomo e senza l'affannosa rincorsa alle sirene dell'efficientismo. Il legame tra i due mondi è garantito dal piccolo Gerard, che preferisce l'eccentrica mansarda dello zio Hulot (dove ci si arriva dopo un continuo zigzagare tra i pianerottili di altre abitazioni) alla casa avveniristica dei genitori, la compagnia disordinata di simpatici burloni all'obbedienza forzata delle regole dell'etichetta. Un ragazzino con il cuore altrove evidentemente, con lo sguardo pulito di chi vede la vita dal basso di un ingenuità non ancora corrotta. E' a lui che Tati affida le chiavi della sua poesia ed è in lui che deposita le forze sempre accese dell'umanesimo, nel bellissimo finale, quando il padre ripete inconsapevolmente, e con successo anche,lo scherzo del fischio e tra i due, finalmente, si instaura una tenera e speranzosa complicità. Grande film e grande Tati. 

 

 

 

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