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Venerdì 13: capitolo finale

Regia di Joseph Zito vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su Venerdì 13: capitolo finale

di Raffaele92
6 stelle

Vi starete sicuramente chiedendo, perché recensire proprio il quarto capitolo?

Perché è uno spartiacque nella saga: si colloca in mezzo alla (pseudo)autorialità e compostezza formale che hanno reso i precedenti tre capitoli dei prodotti superiori alla media (la media del genere, si intende), e la sciatteria tronfia e decerebrata che avrebbe caratterizzato i successivi capitoli rendendoli spesso ridicoli e insulsi.

“Capitolo finale”, lo hanno chiamato. Ma finale proprio non è, e questo titolo così “piacevolmente” errato ci ricorda come la legge del botteghino sovrasti spesso e (mal)volentieri gli intenti alla base del cinema stesso pur di incassare e attirare il pubblico pagante (si pensi soltanto che nel sesto capitolo, “Jason vive”, il famoso killer torna in vita grazie a una scarica elettrica proveniente da un fulmine: cosa non si fa per i soldi…).

Su questo quarto episodio vengono ripetute ed elevate (ancora una volta) all’ennesima potenza le regole basilari del genere che autori con la A maiuscola come Wes Craven avrebbero sapientemente e testualmente riportato nelle loro opere (“Scream”, ça va sans dire). Prima tra tutte la legge secondo la quale “chi fa sesso muore”. La morte (qui equivalente squartamenti che non lasciano di certo spazio all’immaginazione) sembra curiosamente quasi una “punizione” all’atto sessuale: il ragazzotto timido e (probabilmente) vergine che ha il suo rapporto sessuale con una delle ragazze di turno viene ammazzato subito dopo aver fatto sesso (atto fisico che la sua introversione lo ha precedentemente portato quasi a temere). Dato il carattere del personaggio (a morire per primi in questo genere di film sono infatti sempre i più disprezzabili, quelli che si fanno di canne o che cercano il sesso a tutti i costi) era lecito aspettarsi che sopravvivesse fino a i titoli di coda, ma anche quando (come in questo caso) il rapporto sessuale assume i contorni di un’emancipazione (e non della pulsione ormonale di ragazzotti figli di papà in vacanza permanente), non c’è comunque scampo e si è costretti a perire.

Unica prova buona di un mediocre regista che, in futuro, si sarebbe completamente dedicato all’action movie regalandoci veri e propri scult (“Rombo di tuono” e “Scorpione rosso” in testa).

In un’epoca (la nostra più delle precedenti) dove critica e pubblico hanno erroneamente provocato una netta scissione tra film “superiori” (i film d’essai, ultra premiati, ma sovente – per carità, non sempre – più vuoti e insignificanti di quanto non si voglia far credere) e film “inferiori” (i film d’evasione che spesso invece celano riflessioni di non secondaria importanza), esistono per fortuna pellicole come questa a ricordarci che il cinema è prima di tutto piacere della ripetizione, la sicurezza donata allo spettatore insita nel carattere reiterativo di immagini, schemi, personaggi, strutture e situazioni.

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