Regia di Shohei Imamura vedi scheda film
Lo scontro tra tradizione e modernità, a Kurage, piccola isola di contadini e pescatori, assume la veste di un tragico conflitto tra due opposte forme di barbarie, entrambe ugualmente irrispettose della dignità dell’uomo: l’individuo, originariamente soggetto alla crudele ira degli dei, con l’avvento dell’industrializzazione e del mercato del turismo diventa ora schiavo delle ciniche logiche del profitto. L’istinto rimane sullo sfondo, a fare da filo conduttore ad una vicenda che contrappone l’impulso privo di morale all’avidità priva di criterio: se, nelle comunità civilizzate, il sesso è stato regolamentato ed istituzionalizzato (vedi l’ingegnere venuto da Tokyo, che è marito fedele e padre di famiglia), il desiderio di crescita economica, per contro, si impone come una necessità assolutamente prioritaria, che non tiene conto delle radici culturali dei popoli. Così il terreno dove prima si estendevano risaie e campi di canna da zucchero è destinato ad essere spianato per fare spazio ad un aeroporto, benché ciò significhi la morte di una millenaria tradizione agricola. Gli uomini contemporanei non hanno la pazienza di scavare un canale nella roccia affinché l’acqua della sorgente possa raggiungere la manifattura dello zucchero: eppure, appena fuori dal villaggio c’è chi, per castigo, è rimasto vent’anni incatenato, condannato a lavorare con le mani per abbattere una montagna. La religiosità degli abitanti del luogo conosce solo un infinito presente ed un passato indefinitamente remoto, in cui si colloca l’origine divina e misteriosa di tutto ciò che esiste. La visione del mondo è basata su un creazionismo privo di qualsiasi evoluzione (ben raffigurato dal cantastorie paralitico), in cui tutto è improvvisamente comparso dal cielo: la leggenda sostituisce la storia e, di fatto, travisando la memoria, la azzera: alla fine del film si scoprirà che anche l’isola di pochi anni prima, quella tranquilla oasi tropicale precedente all’arrivo degli affaristi edochiani, è stata relegata nell’anticamera del tempo, trasformata in un mito irraggiungibile e quindi immune dal dolore del ricordo, dal rancore per i torti subiti, dal rimorso per i delitti commessi. Nell’antica mentalità giapponese, ciò che è stato, talvolta, si cancella per sempre, dalla realtà umana, come i crimini si estinguono completamente quando vengono espiati. Il potere di cambiare le cose appartiene, infatti, esclusivamente agli dei, che sono i soli a giudicare e a dettare legge. Il loro profondo desiderio, il cui oggetto è rappresentato, nel racconto, dal corpo femminile, è una sensualità suprema che si manifesta in dominio e forza generatrice: prerogative che non competono all’uomo, il quale deve solo osservare i limiti, servire ed obbedire.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta