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Strada a doppia corsia

Regia di Monte Hellman vedi scheda film

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La recensione su Strada a doppia corsia

di Antisistema
8 stelle

Il prosieguo dai western “La Sparatoria” (1966) e “Le Colline Blu” (1966), non poteva che approdare al genere di riferimento di tutta la cinematografia americana, nonché oggetto di drastiche rivisitazioni da fine anni 60’; il “road movie”.
La strada è l’emblema cardine di un paese in forte sviluppo, collegando vaste parti del proprio territorio tramite vie di comunicazione, tramite l’asfalto, spianato sugli ostili terreni desertici del centro e del sud-ovest degli Stati Uniti.
Opera anomala “Strada a Doppia Corsia” (1971), come tutto il cinema di Monte Hellman, fiero outsider, anche nell’epoca della massima ribellione al sistema, con un cinema astratto disancorato da ogni schema narrativo prefissato, partendo da un cast di attori non protagonisti; il cantautore James Taylor e il batterista dei "Beach Boys" Dennis Wilson, a cui ai deve aggiungere l’attore feticcio di Sam Peckinpah, Warren Oates. Tre nomi deprivati delle loro identità anagrafiche. Figure sfuggenti, che esistono solo in quanto guidatore (Taylor), meccanico (Wilson) e GTO (Oates, che prende il soprannome dalla propria auto, una Pontiac GTO), sulle squallide strade senza fine dell’entroterra americano.
Siamo ad inizio anni 70’, ma le corse clandestine a cui partecipano il “driver” assieme al suo assistente esperto di meccanica, sanno già di canto del cigno mortifero di una generazione, che urla ad un cambiamento, ritrovandosi per tutta risposta della “maggioranza silenziosa” Nixon come presidente.
L'antidoto alla squalida stasi, risiede nella velocità. La giusta dose di eroina, che serve a tirare avanti per un altro giro, un’altra corsa, l’ennesima sfida. Un vuoto esistenziale attanaglia dei personaggi, privi di prospettive e senza alcun punto d’arrivo, perché le mete fissate, cambiano sempre improvvisamente assieme ai compagni di viaggio, come afferma una ragazza (Laurie Bird, tragicamente morta suicida 8 anni dopo la realizzazione del film) unitasi con il gruppo.
La Chevrolet 150 è l’unico oggetto a cui prestare amorevoli cure e attenzioni, in ogni sua componente meccanica. Tale modello era un mezzo largamente venduto tra i piccoli salarymen o le forze di polizia istituzionali, destinatari molto lontani per modi e stile di vita, da chi la sfrutta per correre.  
Partendo da un veicolo emblema della visione “borghese”, il guidatore e meccanico, ne hanno svuotato l’essenza iniziale, revisionandone da cima a fondo le componenti tecniche, truccato il motore e divelto i sedili posteriori, in quanto inutili zavorre per un auto da corsa, il cui scopo è il dover essere leggera e maneggevole. Di certo non un comodo mezzo di trasporto per famiglie, anche perché nessuno pensa minimamente a mettere su della prole, men che meno ad avere una prospettiva all’orizzonte, in quanto ogni punto prefissato come traguardo, nei fatti non si concretizza mai in un arrivo.

 

La sfida Chevrolet 150 e Pontiac GTO, non ha motivo di avere una conclusione, in quanto non c’è niente a cui arrivare, un punto vale l’altro e quindi tutto vale niente, comprese le relazioni tra la ragazza ed il meccanico, guidatore e GTO.  
I pochi soldi vengono spesi per il carburante lungo squallide stazioni di servizio o per sostiruire-migliorare le componenti della macchina; carburatore, ruote e soprattutto le sospensioni. Al fine di ricercare la massima prestazione, non la comodità, con buona pace delle lamentele della ragazza per la sua schiena distrutta.
Hellman porta all’estremo il concetto del movimento, tramite un montaggio che partendo da tre ore durata iniziali, è giunto alla durata di un’ora e quaranta, secondo il suo consueto lavoro di eliminazione e riduzione all’essenziale, dove le parole vengono cassate, eclissate e rarefatte, producendo un lavoro finemente intimo, anti-spettacolare e anti-recitativo nel senso più bressoniano del termine, riducendo al massimo il rapporto empatico verso dei personaggi portatori di un malessere senza soluzione. Qualora la tecnica non bastasse, ci pensano le brusche interruzioni di dialogo ad opera del guidatore a cui non interessa nulla, del passato difficile di GTO, quest’ultimo a conti fatti l’unica figura con un costrutto, che non sia ridotta a mera metafora di un altro indefinito, distrutto per autocombustione assieme alla stessa pellicola.
Un’opera spiazzante, realizzata con un budget più alto di tutti i precedenti film del regista (ben 875.000 dollari) ed una produzione di una major come la Universal alle spalle, ma la rinunzia al montaggio ed il ricorso all’astrazione, che avevano trovato migliori soluzioni nelle precedenti pellicole western, qui viene ripudiato ferocemente dal pubblico, che richiede un cinema “New”, ma sempre nell’ottica di una grammatica codificata, con la presenza della guida di “Hollywood”.
Quindi un cinema che abbracci le istanze ribelli, ma guidate sempre dall’istituzione; non è un caso come la fase più radicale e sperimentale, della "Nuova Hollywood" termini alla fine del 71’ - difatti l'altro e molto più rumoroso flop dell'annata fu "Fuga da Hollywood" di Dennis Hopper, padre di "Easy Rider" (1969) -, sancendo l’accoglimento delle nuove leve all’interno dell’industria in grado di dar loro carta bianca purchè portassero soldi - per ora -, femarginando invece cineasti troppo indipendenti nello spirito come Hellman, mai più ripresasi dal fallimento commerciale di tale pellicola.
     

locandina

Strada a doppia corsia (1971): locandina

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