Regia di Harmony Korine vedi scheda film
“Slap your face! You should slap your face! Just… You might even wake up! Just slap your face!”
“No.”
“If I were this stupid, I would slap my own face. Just tell him to slap his own face!”
“I’m not even stupid.”
“Why don’t you tell him to slap his own face? Just slap your face. Just slap your face, I turn my back, I turn my back and he’s gonna start to slap his face. You know you’re gonna do it because you will wake up. Slap your face!”
“Slap my face?”
“SLAP YOUR FACE!”
“Like this?”
“Yeah. Tell him to slap it harder, tell him to slap it harder!”
Julien (Ewen Bremner) è un ragazzo schizofrenico, delicato, problematico almeno quanto la sua famiglia: il padre (Werner Herzog) è dispotico, balzano ed insensibile, concentrato sui suoi improbabili passatempi e sulla formazione dell’altro figlio maschio Chris (Evan Neumann) affinché diventi un vero uomo e un buon lottatore, un wrestler scafato. Julien ha anche un’anziana nonna (Joyce Korine) e una sorella, Pearl (Chloë Sevigny), introversa, sottomessa e incinta non è ben chiaro di chi.
Julien, che porta per vezzo un apparecchio che gli rende parte della dentatura dorata, ha un lavoro come assistente in un istituto per non vedenti e, per il resto del tempo, cerca di intrattenersi e di farsi notare come può, recitando filastrocche infantili e poesie inconsapevolmente dadaiste. Ma suo padre, preso dagli assurdi metodi di allenamento con cui vessa Chris, non sembra avere occhi né per Julien né per Pearl, che si diletta con l’arpa e vede castrata ogni sua velleità. Una famiglia altamente disfunzionale, già vittima di un dolore sopito e pronto a deflagrare in occasione di un incidente sulla pista di pattinaggio…
“Il personaggio di Julien è basato su mio zio, che è schizofrenico. Ho sempre voluto fare un film su di lui. Ho voluto fare un film su uno di questi malati di mente ma rendendogli giustizia, perché di solito, quando vedi questi personaggi nei film, è sempre carino, adorabile ed eccentrico, capito?, lo schizofrenico carino. Penso che sia davvero una cazzata, è una cosa che odio. Io volevo mostrare una macchia di sangue sulle sue mutande, lui che si picchia da solo in testa o che si butta da una finestra, volevo mostrare cosa significa davvero e l’orrore della schizofrenia.” [Harmony Korine]
Harmony Korine sorprende un po’ tutti dopo il clamore suscitato da “Gummo” e, una volta contattato da Thomas Vinterberg, aderisce al voto di castità del manifesto danese Dogma 95 e diventa il primo regista statunitense a girare un film approvato dal Dogma. “Julien Donkey-Boy”, dunque, o “Dogma #6” che dir si voglia, è stato girato con un’economica telecamera digitale a spalla e successivamente trasferito su 35mm, procedimento che conferisce al risultato finale un aspetto particolarmente granuloso.
In realtà, il regista 26enne commette diverse infrazioni ai rigidi dettami del Dogma, quali l’uso di musica extradiegetica, di telecamere nascoste e di freeze frame di Polaroid in successione, ma tant’è, specie per un giovane autore convinto che il cinema sia ancora intrappolato allo stato infantile e già abituato a piegarne le regole. Fra le altre cose, nella sua confessione - necessaria per l’adesione al Dogma - Korine spiega che la fidanzata Chloë Sevigny non era realmente incinta (per quanto lui dica di averci provato) e che ha usato un cuscino trovato in location, ovvero nella casa della nonna Joyce nel Queens.
Nonostante queste premesse, va detto che la proposta di Vinterberg è giunta poco prima dell’inizio della lavorazione e che dunque l’idea di cinema di Korine abbia ancora una coerenza con quella esposta in “Gummo”, soprattutto per quanto riguarda la narrativa random e la componente d’improvvisazione. Korine ama focalizzarsi su personaggi e singole scene e “Julien Donkey-Boy” va a sussulti: patisce alcuni momenti cinematograficamente forzati (di cui alcuni solo immaginati dalla mente schizofrenica di Julien, con tutta probabilità), ma si rilancia con diverse trovate stranianti e bellissime; cito su tutte il crescendo della scena nella chiesa gospel afroamericana, la telefonata di Julien alla madre morta di parto, la glaciale durezza del personaggio di Werner Herzog, i quindici minuti finali. Duri e sentiti, così come la partecipazione di Ewen Bremner, noto come esilarante caratterista nel ruolo di Spud in “Trainspotting” e qui protagonista eccellente: il suo Julien è commovente, frutto di un duro lavoro che lo ha visto impegnato a nascondere il proprio accento scozzese e soprattutto a preparare il ruolo incontrando a più riprese Eddy, lo zio schizofrenico del regista, nell’istituto psichiatrico dove questi era ricoverato. Peccato solo per Chloë Sevigny, il cui ruolo risulta un po’ penalizzato da una caratterizzazione poco sviluppata.
Dopo “Julien Donkey-Boy”, un altro fiasco commerciale, Korine si è ritrovato inviso alla critica e pupillo di un numero crescente di registi di un certo calibro, da Herzog a Bertolucci passando per Van Sant e von Trier (cofondatore del Dogma 95 con Vinterberg). Nel 1999 prova a dar vita al suo progetto più folle, “Fight Harm”, destinato a rimanere incompleto e consistente in una raccolta di riprese delle aggressioni da lui subite e provocate in strada aizzando persone più grosse di lui. Un tentativo di rivisitare il suo mito Buster Keaton, dimostrando – parole sue – che c’è sempre una forte componente tragica nello humour (ed in particolar modo nello slapstick). Da lì scrive un’altra sceneggiatura per Larry Clark, dirige alcuni videoclip ed essenzialmente sparisce nel nulla per diversi anni, privato del desiderio di fare film e sempre più schiavo della dipendenza da eroina e crack.
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