Regia di Harmony Korine vedi scheda film
Mettiamo pure da parte Todd Solondz: è Harmony Korine il vero enfant terrible del cinema indipendente americano. Noto soprattutto per il «cult» Gummo – dall’atipica colonna sonora, nonché dalle efferatezze “alla” Lenny Clark –, il regista americano realizza, con il successivo Julien Donkey-Boy, probabilmente il suo film migliore fino ad oggi. Attraverso la storia di Julien, un giovane schizofrenico in una famiglia di casi patologici, Korine mette a ferro e fuoco la provincia americana, con uno stile sperimentale ma assolutamente necessario e giustificato. Le grezze riprese al limite del video amatoriale(ma anche prossime al videoclip), il montaggio convulso, la frammentazione della narrazione sono tutti elementi che “spostano” continuamente la questione schizoide di Julien dal piano profilmico a quello filmico. Julien Donkey-Boy – titolo che richiama, tra l’altro, e forse non casualmente, il barthiano Giles Goat-Boy – è un film scomposto, caotico, ma anche fortemente incisivo, febbrile, iconoclasta. La realtà che ci viene mostrata è composta da uomini terribilmente soli (il padre di Julien, interpretato da Werner Herzog, grande estimatore di Korine), ma anche da freaks, da “diversi”, incredibilmente compassionevoli. Julien, schiavo della sua condizione, è solo perché tutti sono troppo occupati a badare ai propri fantasmi. Deve quindi crearsi una realtà alternativa, deforme: vagare a vuoto per la città; instaurare un rapporto incestuoso con la sorella; accudire un feto senza vita: tutto questo perché la sua realtà non ha più alcuna coordinata. Il ragazzo-asino non potrà far altro che fuggire sotto una coperta, lontano da un mondo che non può comprendere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta