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Jail Bait

Regia di Edward D. Wood jr. vedi scheda film

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La recensione su Jail Bait

di Widmark
2 stelle

Lo spietato gangster Vic Brady (Farrell) plagia il figlio (Malone) di un noto chirurgo così da coinvolgerlo nei suoi loschi affari, non esitando a ricorrere al padre per farsi cambiare i connotati dopo una rapina finita nel sangue. Colpo di scena finale. Allo scapestrato Ed Wood Tim Burton dedicò nel 1993 un succoso bio-pic, facendone il patrono dei cineasti inetti e senza gusto, disperatamente devoto alla Settima Arte quanto incapace ricrearne la magia. Il personaggio si è accattivato larghe simpatie presso il pubblico, suscitando anche in Italia una “Ed Wood-mania” caratterizzata dal recupero filologico della sua opera, misconosciuta in precedenza. Fin qui nulla di male. I guai cominciano, invece, quando gli Ed Wood-maniaci – una truppa di cinefili cui va peraltro riconosciuta, sia detto senza ironia, un’autentica quanto rara dedizione nel venerare il loro idolo – rivendicano una riabilitazione critica del (presunto) Maestro. Ed Wood, dicono, non è così male. I suoi film non meritano l’ignominiosa etichetta di «peggiori al mondo». Occorre rivedere il consolidato giudizio. Che siano gradualisti o massimalisti, gli Ed Wood-maniaci mirano ad un unico obiettivo: spingere qualche critico compiacente a definirli buoni film, se non grandi film. Concedere a roba senza capo né coda come «Plan 9 from outer space» o «Night of the Ghouls» un patentino di rispettabilità cinematografica, e al suo artefice un passaporto per l’Olimpo dei geni incompresi. Si noti, per inciso, come si allontanino dall’intento di Tim Burton. Che simpatizzava con Wood, certo, ma proprio perché imbelle, perché disastrosamente incapace di dirigere e scrivere, non perché da rivalutare, non perché vilipeso dai benpensanti. Gli Ed Wood-maniaci, invece, chiedono per il loro beniamino un meritato posto al sole, un legittimo busto d’avorio accanto a James Whale o a Tod Browning. Non vedono, o fingono di non vedere, che ciò è impossibile. Giacché a Wood – diversamente da artisti come Roger Corman e Antonio Margheriti, Jack Arnold o William Cameron Menzies – non mancarono soltanto i soldi, ma anche e soprattutto le idee. Quelle idee senza le quali l’artigianato resta confinato nella mediocrità o, come accade a Wood, degenera in dilettantismo senza freni, se privo di elementari nozioni tecniche su come stendere un compione o girare una sequenza. Prendete «Jail Bait»: non c’è un solo, vero squarcio di originalità nell’intera pellicola. Tutto è piatto, incolore, rimasticato. Gli ambienti sono così disadorni da suscitare tristezza. Gli attori (eccetto Lyle Talbot, discreto caratterista di B-movies che qui, al cospetto dei colleghi, pare Laurence Olivier) dimostrano una cagneria inaudita. Le azioni dei personaggi risultano sovente incoerenti. Gli oggetti spariscono: un bicchiere rotto a terra, un’automobile parcheggiata all’esterno di un commissariato. Mescolare noir e chirurgia plastica non era certo, per l’epoca, una novità, dopo il magnifico «Dark Passage» (1947) di Delmer Daves. Né lo scambio di persona, sfruttato grazie alla somiglianza fisica, al centro di «Hollow Triumph» (1948), piccolo grande thriller di Steve Sekely. Il punto è che Wood scopiazzava. Non mirava ad innovare, ma a districarsi con acume nel cinema medio, riciclando spudoratamente stereotipi e icone del passato (Bela Lugosi). Senza riuscirci. Perché era un pessimo regista. Davvero pessimo. Incompetente, privo di senso scenico, ignaro dei ritmi minimi richiesti da una pellicola professionale. Ciò non toglie che molti fra i suoi pastrocchi ispirino una vaga, cialtronesca simpatia. Ma un conto è il riconoscimento dell’umorismo (involontario, giacché Wood si prendeva tremendamente sul serio) avvertito, un conto il giudizio di merito. Non varrebbe onestamente la pena d’infierire sul malcapitato Wood, se i suoi estimatori non esprimessero una concezione dannosa per chi ama il cinema. Col loro integralismo, il loro dogmatismo, fanno il gioco di quanti – talora per ignoranza, spesso in malafede – sostengono che bello e brutto, in fondo, si equivalgono. Che le gerarchie sono figlie di un rapporto perverso con l’are, che un canone – qualsiasi canone – è espressione del dominio di un gruppo su un altro, di una classe su un’altra, ed è perciò privo di qualsiasi attendibilità scientifica. Sdoganare Wood, insomma, per sdoganare tutti. Trattasi di una visione pervertita e pervertente. Chi la fa propria, al pari di chi la combatte, suole definirla, scorrettamente, «relativismo». Relativismo è il riconoscimento dell’autonomia di ogni cultura, il che m’impedirà di valutare con il medesimo criterio una pellicola dell’europeo J. Losey e una dell’indiano S. Ray. Dovrò al contrario contestualizzare ogni opera, non solo nello spazio ma anche nel tempo, tentando il più possibile di coglierne meriti e demeriti in rapporto sia al nostro tempo (l'"occhio di guarda"), sia al suo (l'"occhio di chi fece"). È questo il presupposto di una buona ermeneutica. Chi scrive non crede – al pari dei più – che esista un “progresso” artistico, simile a quello scientifico o tecnologico. Ma ciò non significa negare il mutamento di quell’articolato sistema di simboli che definiamo “cultura”. La quale è, per definizione, dinamica, e dunque altera la nostra stessa percezione del buono o del brutto, del gradevole e dello sgradevole, del giusto e dell’ingiusto. Tutto questo per dire cosa? Che Ed Wood non è difendibile nemmeno in chiave «relativistica». Brutto allora, brutto ora. Perché occidentale, perché americano, perché disastroso. Non dobbiamo temere d’infliggere bocciature, anche aspre. Dall’orinatoio di Marcel Duchamp in poi, qualcuno periodicamente s’è convinto di aver finalmente trasvalutato i valori. Pia, nietzschiana illusione. Il buon senso ci indica ancora cosa respingere e cosa accettare, cosa scartare e cosa mantenere. Il grillo parlate nel nostro cervello ha ancora la forza per non equiparare i western di Raoul Walsh a quelli di Mario Caiano, i melodrammi di Douglas Sirk a quelli di Alfonso Brescia. Dopotutto è sopravvissuto agli esteti del kitsch e ai livellatori sessantottini. A chi idolatra Nello Pazzafini a chi sosteneva che la nuova frontiera fosse rappresentata da sublimi puttanate come «Vent’d’est» di Jean–Luc Godard. Il canone ha retto, la razionalità pure. Diciamo quindi: viva il goffo Ed Wood, lo zotico Ed Wood, il patetico Ed Wood; abbasso i suoi zelanti difensori. Che lo paragonano ad Edgar G. Ulmer. Che cercano di trascinarci in un’angosciante notte hegeliana, in cui tutte le vacche (pardon, le opere) sono nere. Voto: 1 (* su ****)

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