Regia di Pasquale Squitieri vedi scheda film
Indimenticabile melodramma gangsteristico storico. Splendido sotto il profilo squisitamente tecnico, in tutti i fattori: anche questa, come altre opere di Squitieri, è sottovalutata, forse proprio perché la denuncia contro una certa eterna vincente gestione del potere è corretta. Eccellente per come fa capire la realtà della camorra, e un pezzo della nostra storia, anche attuale. Infatti l’intelligente, e affatto scontato, finale mostra che i gravi problemi che favorivano la criminalità organizzata, dopo l’unità d’Italia, sono rimasti tali anche ai tempi del film, il ’74. 80 anni dopo il 1891, in cui è ambientata la vicenda, non è cambiato nulla: ma si può dire anche oggi, almeno fino al 2018, non è cambiato nulla: i ricchi criminali spadroneggiano.
Alla sceneggiatura, firmata dal regista assieme al grande Ugo Pirro (con la collaborazione dell’ottimo scrittore napoletano Michele Prisco), va il merito di un lettura storica perfetta: la malavita c’è nella misura in cui manca lo stato che, per disinteresse e/o interesse, lascia marcire la gente nella miseria, senza alternativa alla delinquenza. Perché? Il film non lo dice, ma si sa: i politici che gestiscono lo stato hanno bisogno del formidabile e irrinunciabile serbatoio di voti controllato dai mafiosi di tutto il sud (e ormai anche di quelli allargatisi con successo in tutta Italia, come si è visto in questo secolo). Per questo promuovono un camorrista a capo del polizia, nel film. Così la giustizia non può che scadere nell’ingiustizia, e alimentare la ribellione e la sfiducia contro lo stato.
Restano scolpite nella memoria le tante scene della barbarie e del primitivismo camorristici. C’è chi accetta di farsi sputare in faccia in pubblico per centinaia di giorni di fila, pur di non essere ucciso. O Il silenzio surreale di tutti, in attesa che si svegli il capo camorra: dopodiché i vicoli riprendono a brulicare del consueto chiasso incontrollabile. Le regole non scritte valgono come il ferro; se vengono infrante, non resta che la morte. Tutto si gioca sull’economia: i soldi devono andare solo ai potenti criminali. Tutti sanno tutto, ma non devono denunciare nulla. Il classico dell’omertà è un dovere: per salvare la propria vita, la propria sopravvivenza economica; o, per i capi criminali, per proteggere l’associazione criminale, anche sotto tortura.
Ottimo è il parallelismo fra la giustizia reale, che perde, e la giustizia dei camorristi, ovvero un’ingiustizia che vince. Il guappo è chi fa quello che vuole, in un’anarchia dove solo l’arroganza criminale paga davvero. E gli altri sono fessi, e subiranno sempre, per quieto vivere, perché non hanno questa statura delinquenziale. Un mondo, quello delle mafie, dove davvero basta volere per emergere: è un mondo meritocratico; peccato solo che bisogna solo voler essere disonesti e assassini, con una coerenza immarcescibile. Questo è l’unico pregio della volontà che conta. E queste opere fan capire come nel sud Italia solo questi hanno avuto il potere: l’allarme però non è ancora abbastanza chiaro, nonostante anche opere divulgative meritorie come questa.
Notevole è anche l’affresco della virilità da criminale. Lo stupro della propria amante è un’onta che non può emergere per la vergogna: una volta subito, deve essere taciuto. È la colpa è della donna che, solo per il fatto di essere stata violentata, ha macchiato l’onore del suo uomo. Una rivoltante morale maschilista, che non è stata ancora denunciata da tutti.
L’ultimo scorcio del film mostra che tale logica criminale è tanto forte da non poter essere scalfita, e da stritolare chiunque voglia farvi eccezione in nome di superiori valori etici. Viene ucciso il boss (che già ha perso la faccia per non aver ucciso l’amante rea di essere stata stuprata) che non vuole commettere un’ingiustizia contro un amico cui deve molto; viene ucciso l’avvocato, per mano del ragazzino che pure lo adora e che lui sta difendendo. Quest’ultimo episodio, epilogo della vicenda, denuncia il marciume morale assoluto cui le organizzazioni criminali conducono: costringere, quasi senza possibilità di scelta, un ragazzino a uccidere per avere vantaggi (o soprattutto non avere svantaggi grossi) in futuro. E una volta che ci si è imbarcati su quella china disastrosa per ogni coscienza, non ci si può più tirare indietro.
Anche venendo agli aspetti estetici, il film mostra qualità notevoli. Stupende scenografie (sia gli interni che gli ariosi esterni napoletani). Eccelsi i costumi, un tributo anche alla straordinaria trazione sartoriale partenopea.
Splendide, e terribili, le scene di azione. Quelle di duello (sia con il coltello, che quella con la frusta); quella dell’inseguimento a cavallo; quella della terribile tortura (denuncia realistica contro gli abusi della polizia).
Stupenda è la ricostruzione della Napoli dell’epoca, che del resto è patria dei tre autori già citati, con tante scene che colpiscono: il mastino, la pizza fra i disperati, il dialetto, la vita palpitante dei vicoli, le donne che litigano… Un posto a parte lo merita la religiosità popolare: fra l’altro, tremenda, quanto verosimile, è la scena in cui i capi della camorra decretano assassinii mentre pregano in chiesa, indisturbati perché intoccabili.
Tutti recitano bene, anche i numerosi comprimari. Grande Nero come avvocato, e la Cardinale e Lina Polito in intensi ruoli femminili, che danno corpo a un grande sentimentalismo, tipico partenopeo, autentico e non esagerato.
Valide anche musica e fotografia. In due ore tiene sempre il fiato sospeso
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