Regia di Peter Jackson vedi scheda film
Si accentuano i toni shakespeariani nell’ultimo tassello della trilogia di Peter Jackson, Il ritorno del Re: padri che non riconoscono i figli se non quando sprofondano nell’abisso della pazzia, giovani re che scoprono la fierezza delle loro origini e trovano parole per incitare alla battaglia, principesse guerriere che combattono per il padre e uccidono colui che non può essere ucciso da un uomo, e armate di spettri, maledizioni antiche, rancori recenti. Non che non fosse imbevuta di epica e passione classica anche la saga di Tolkien (che attinge alle stesse radici di Shakespeare); e non che non avessimo incontrato nei film precedenti di Jackson un malevolo Riccardo III (Vermilinguo) o una foresta che marciava contro un castello fortificato (l’esercito di Barbalbero). Ma Il Ritorno del Re, sostanzialmente chiuso tra la città assediata di Minas Tirith, dove gli uomini sostengono lo scontro con le forze dilaganti del Male, e il ventre roccioso di Mordor, nel quale Frodo e Sam stanno inoltrandosi per buttare l’Anello nella lava del Monte Fato, è giocato più degli altri sul tono della tragedia ineluttabile, e più carnale, più cupo, più umano dei due film precedenti. Scomparse quasi completamente le pause fiabesche (il paese degli Hobbit ritorna solo nel finale, ma segnato da una luce grigiastra e dallo spaesamento dei quattro reduci, gli Elfi si avviano all’estinzione, in soccorso degli umani non arrivano creature dei boschi, ma la spettrale armata dei Morti), persino Gandalf non è impegnato in battaglie di magia ma solo nella guerra. Se c’è ancora fantasy è quella orrifica che popola i nostri incubi peggiori e che Peter Jackson conosce bene: orchi deformi, teste mozzate e rilanciate ai nemici con la catapulta, le sagome nere e vuote dei Nazgul che attaccano dal cielo, il ragno-madre Shelob che tesse le sue tele carnivore, giganteschi ”olifanti“ cavalcati da guerrieri dipinti con i colori di guerra, corpi che si sfaldano e degradano (Smeagol/Gollum, ma anche Frodo) perché posseduti dal potere travolgente delle tenebre. Il reggente Denethor mangia mentre il suo figlio più puro va a morire e i ripetuti primi piani della sua bocca sono più spaventosi del peggiore degli orchi. Film di terra, Il ritorno del Re, dove non c’è tempo per i protagonisti, se non per vederli impegnati in ciò che deve essere fatto; dove i quattro ragazzi Hobbit invecchiano d’un colpo e dove tutta la magia del mondo si appresta a scomparire una volta instaurato il tempo degli Uomini. I grandi momenti epici, ariosi, sono per lo più umani: i fuochi di Minas Tirith che si accendono per chiedere aiuto a Gondor, la carica e lo sfondamento dei cavalieri di Rohan (scena magistrale, che restituisce alla platea lo slancio e la forza d’urto della cavalleria), Aragorn che guida i suoi «Per Frodo!», l’inchino di tutti i guerrieri e i re e gli elfi davanti ai quattro hobbit. E umani sono la commozione e i sentimenti: l‘amicizia prima di tutto, poi l’onore e l‘accettazione delle proprie responsabilità. Abilissimo nel sostenere i fili di una narrazione che procede per eventi paralleli e il ritmo di una battaglia quasi incessante, Jackson ammanta questa terza parte di un velo quasi testamentario (un’aria che si respira anche nelle pagine di Tolkien), di una malinconia insinuante, del rimpianto per il regno del meraviglioso e per l‘avventura che non si ripeterà. «Non si può essere per sempre divisi in due», dice Frodo a Sam lasciando al giardiniere che è il vero vincitore della battaglia contro Sauron il compito di completare le ultime pagine del suo libro. La Compagnia dell‘Anello si separa davvero; anche i cavalleggeri vanno in pensione. E sopra gli orrori shakespeariani si stende un respiro fordiano.
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