Regia di Frederick Wiseman vedi scheda film
Vicino alla morte.
Sei ore per uno dei documentari più importanti di Frederick Wiseman (tanto o più di Hospital), quello in cui con la sua solita macchina da presa invisibile (che anche qui, magicamente, scompare e si dimentica), riprende i giorni di lavoro terribile e sfiancante dei medici e degli infermieri di un reparto ospedaliero a Boston, quello oncologico e di rianimazione, in cui vengono ricoverati i pazienti più gravi affetti da malattie il più delle volte incurabili. La necessità di comunicare la notizia ai parenti e di confrontarsi con loro, le discussioni fra colleghi, il tentativo di comunicazione con pazienti quasi allo stato vegetativo, l’eventuale crollo del mito del “medico che salva sempre le vite”, il lato umanissimo dei dottori dietro la scorza delle conoscenze sanitarie, la quotidianità di un ospedale fatto anche da inservienti e segretarie, il traffico che circonda il Beth Israel Hospital: è tutto materiale che dentro Near Death assume i suoi contorni più reali, tanto antispettacolari quanto veri, che diventano essi stessi i punti di riferimento per un film-ricerca che in realtà non sembra cercare alcunché, visto come aderisce alla realtà in maniera così permeabile e umile, ma che fa entrare lo spettatore (grazie anche alla mastodontica durata) in un vero e proprio conflitto a fuoco fra la realtà delle istituzioni umane (burocratizzate, scientifiche, potenzialmente e giustamente fredde) e il lato umano e particolaristico delle vicende umane, dunque i dubbi, le ansie, le stanchezze, le disperazioni.
Uno dei dottori pronuncia proprio la più importante domanda del film, cosa voglia dire effettivamente essere “terminali” in una materia rovente come la medicina in cui c’è sempre e continuamente una percentuale di rischio, una scienza inesatta che ha un contatto diretto coi “profani” alla materia, cioè con coloro che di medicina non capiscono ma possono “comprenderne”, o quantomeno interpretarne, il lato etico-morale. Decidere se intubare o meno un paziente con crisi respiratoria, o permettere o meno ai medici di eseguire shock elettrici in caso di arresto cardiaco fa parte di una serie di scelte irrazionali e non ponderabili in cui si deve scegliere fra il dolore e la morte, la reiterata sofferenza o la fatal quiete (con relativa sofferenza dei parenti più vicini). In questo senso il rapporto medico-familiari diventa fulcro fondamentale di tutto il lungometraggio: far comprendere ai parenti di un paziente in fin di vita quali sono le condizioni del caro quasi defunto, e dunque dosare le giuste quantità di eventuale speranza, sono le azioni che più rappresentano il lato umano di Near Death. Che, dal canto suo, si rivela come già detto una delle più importanti opere del regista americano, per come la comunione fra razionale e irrazionale, la speculazione filosofica e i dilemmi etici possano traboccare naturalmente da eventi semplicemente mostrati e spesso ostinatamente inseguiti.
In particolare un tratto di profonda verità che rende Near Death cinematograficamente attendibile è il fatto che Wiseman mette spesso in mostra dialoghi seguendo con lo sguardo i volti degli interlocutori senza lavoro di montaggio. La realtà nuda e cruda viene fuori dal suo cinema, ma non per questo lo si potrebbe definire cinema iperrealista, o realista che dir si voglia. Sebbene Wiseman sia in grado di assumere i punti di vista di ogni persona che inserisce all’interno dell’inquadratura (viviamo la spossante fatica dei dottori così come la tristezza frequente dei familiari), il discorso che porta avanti in Near Death è non solo una dimostrazione esperienziale di “vita al cinema”, in cui proviamo sulla nostra pelle drammi altrui ripresi, ma è anche un gettare domande sempre più pressanti allo spettatore fino a metterlo in gioco del tutto. In Near Death, grazie anche alla durata, lo spettatore è spogliato di troppe certezze che spesso vengono limitate all’interno dello schermo (e dello sguardo) cinematografico. L’attenzione che viene richiesta da Wiseman è massima, ed è rivolta tanto ai contenuti quanto al fluire “normale”, quotidiano, della forma (i palazzi, le macchine, gli strumenti medici, le attività degli inservienti, le sale d’attesa): perché un montaggio in sei ore comunque c’è, e tiene a costruire un sotterraneo percorso di consapevolizzazione umana. Magari non è un vero e proprio discorso, ma è comunque una spinta all’autoriflessione. Che giustamente di risposte non ne ha, perché la realtà oggettiva non esiste e ognuno ne assorbe le più pregnanti impressioni (ed interpretazioni).
C’è una sequenza in cui osserviamo una donna che non vuole a tutti i costi una tracheotomia. Sentiamo ciò che raccontano le infermiere, cioè che la paziente è assolutamente decisa, e subito dopo osserviamo il dottore proporre le diverse opzioni alla signora e ricevere in tutta risposta dei gesti di ansia e indecisione. L’inesattezza dei calcoli umani, o della possibilità della certezza, esplodono tutti in questa sequenza. Così come quando due dottori si ritrovano a discutere di cosa significhi “credere” o meno che un paziente del loro reparto possa davvero salvarsi. Ma Wiseman non è mai invadente, è sempre delicato: gli eventi che richiedono più privacy e accuratezza medica li affida al fuori campo.
Per questo e per altri motivi Near Death è un capolavoro. Perché è un’esperienza di “vita al limite”, oltre che di cinema. E qualsiasi vita mostrata al cinema, sulla via della morte o meno che sia, è “al limite”. In un certo senso, “vicina alla morte”.
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