Regia di Koji Wakamatsu vedi scheda film
Il peccato originale è il desiderio di maternità. È la pretesa di divinizzare un evento naturale, che si manifesta attraverso comuni sostanze organiche e che dà avvio, per chi viene al mondo, a un percorso di tribolazione. Marukido rimpiange di essere nato, e per questo motivo odia le discendenti di Eva, che, abbandonandosi ad un primordiale istinto, concepiscono e partoriscono. Sua moglie, da cui egli non avrebbe mai voluto figli, lo ha “tradito” con l’inseminazione artificiale, e da qui nasce la sua volontà di dominare e tenere sotto controllo il corpo femminile: ne fa le spese Yuka, la giovane commessa del suo negozio, che egli attira nel suo appartamento per poi tenervela segregata, sottoponendola ad indicibili torture. La sua donna ideale è un oggetto sessuale passivo e sterile, che si possiede interamente, e che, come una cagna, si tiene legata, si picchia e si ciba con gli avanzi di cucina. La violenza non è solo una punizione, né semplicemente una vendetta: è il mezzo con cui si cerca di assoggettare forzatamente una parte di realtà alla propria individuale visione del mondo. Per Kôji Wakamatsu, l’intimità è la dimensione entro cui la filosofia trova un’espressione concreta, fisica, ed estrema: ad essere trascritto nella carne può essere un contenuto politico, religioso, esistenziale, ma, in ogni caso, chi ne è autore è solo un intermediario tra l’idea e la sua realizzazione pratica, e quindi, ne è, a sua volta, vittima. Per il carnefice, impulso e creatività si fondono in una necessità perversa e irresistibile, che si traduce in una bestialità ingegnosa, e quindi tragicamente lucida, consapevole della propria aberrazione. La follia, nel farsi crudeltà, si sdoppia in sacrificio e martirio, diventando un dolore condiviso, come quello che caratterizza una relazione sadomasochistica. La brutalità che si esprime attraverso la coercizione di un soggetto debole, è il riflesso dell’incapacità di contenere la causa e gli effetti delle proprie frustrazioni. Nel caso specifico, la virilità di Marukido incontra un limite nella libertà della sua compagna, che è padrona di gestire il frutto del suo seme, dando vita ad un embrione, a qualcosa che può chiamare suo, e che è totalmente altro rispetto a lui. Quella creatura nascente è un vero e proprio rivale in amore, oltre che un avversario ideologico, in grado di demolire non solo l’esclusività del suo rapporto con la donna, ma anche le profonde convinzioni sulle quali egli vorrebbe impostarlo. Marukido, per compiere i suoi disumani atti riparatori, sceglie una sosia di sua moglie, con la quale ricominciare daccapo, in una maniera tale da prevenire il precedente fatale errore. Egli si sfoga su un’icona in carne ed ossa, mettendo in scena la propria rivincita, o meglio l’illusione della propria intatta invincibilità. Il passato, infatti, si azzera; la sua consorte è morta e sepolta, e sostituita da una maschera mortuaria, mentre la figura di Yuka si sovrappone a quella della sua defunta madre. La circolarità del tempo reinventa la vita, aggirando la memoria del dolore, e recuperando ciò che di buono si è perduto. Ma quel cammino che torna su se stesso diventa presto un cappio che strangola, che toglie il respiro come l’atmosfera asfittica di una prigione, come il rapporto a senso unico tra l’ostaggio e il suo carceriere, che finisce per fondere le loro anime in un’anima sola, decretando, così, che uno solo dei due corpi debba sopravvivere. Embrione è una scarna miniatura della simbiosi che uccide, dello scambio che, non aprendosi al resto del mondo, si trasforma in una gabbia mortifera, in cui, finché possibile, ci si nutre del proprio stesso sangue.
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