Regia di Jean Genet vedi scheda film
Jean Genet col suo unico film esprime, con schiettezza e la sua consueta libertà creativa, l'esperienza vissuta in carcere, dove l'oppressione claustrofobica, i contatti indiretti col vicino di cella (perlopiù uditivi o tramite una cannuccia attraverso un piccolo buco nel muro, da cui far passare il fumo di sigaretta), le sopraffazioni voyeuristiche di una guardia (sadiche e simboliche) e soprattutto l'immaginazione e il sogno, rendono il grigio ambiente, la sua rappresentazione e il sogno stesso, un crogiuolo di sensualità frustrata e sfacciata.
Genet rende tutto ciò senza il bisogno di dialoghi e senza sonoro, aumentando il senso di desolazione e il desiderio di libertà esibito nelle ideali immagini all'aperto o nella tangibile resa onirica del modellato corporale, tramite una fotografia che risalta nettamente e coreograficamente i contrasti, facendo ricollegare la mente alle successive creazioni fotografiche di Robert Mapplethorpe o forse anche agli sfondi scuri di Derek Jarman.
Un film forte ancora oggi, ma scioccante per l'epoca.
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