Regia di Samuel Fuller vedi scheda film
Budda ci indicherà la strada.
“The Steel Helmet” (questo il titolo originale, ovviamente più calzante di quello italiano) fu il terzo film diretto da Fuller (il primo di guerra) e ci narra la storia di un manipolo di soldati americani impegnati nella guerra di Corea (1950-53), il primo massiccio intervento americano dopo il termine della seconda guerra mondiale. Conflitto non psicologicamente devastante come quello del Vietnam, ma carico di aspettative nefaste per una popolazione (non solo americana) appena uscita dall’incubo hitleriano e dalle sue conseguenze.
Lo stile del controverso e geniale regista americano, seppur acerbo, contiene tutti gli elementi che ne sancirono il futuro ruolo chiave nel cinema “B Movie”: pochi mezzi, dialoghi minimi e serrati (anche se qualche dubbio lascia il doppiaggio italiano) e un punto di vista estremo sul come affrontare gli orrori della guerra. Il Sergente Zack rappresenta quindi il perfetto paradigma del come vada affrontata, secondo il Fuller-pensiero, la guerra: un evento talmente assurdo e spersonalizzante da richiedere un approccio “professionale” e avulso da emozioni e sentimenti (oltre ovviamente ad una buona dose di fortuna). Se il proprio scopo è sopravvivere (altro film, altra guerra [malickiana]: "Viviamo in un mondo che si sta spostando verso l'inferno il più velocemente possibile. In una situazione come questa un uomo può solo chiudere gli occhi e non lasciarsi toccare da nulla).
Un personaggio cardine, primo abbozzo ibrido delle future carismatiche figure del Sgt. Possum e del Feldwebel Schroeder (Lee Marvin e Siegfried Rauch) che compariranno nel film “Il Grande Uno Rosso” del 1980, ma più schematicamente aggressivo, quasi a voler rimarcare la sua natura primeva, vicina agli eventi (di fantasia) narrati nell’ambito del lontano conflitto. Meno caratterizzati (ma ugualmente incisivi) gli altri personaggi, tutti emblematicamente caricati di principi etici non negoziabili, in contrapposizione con l’integralismo amorale del protagonista: il nero e paziente Caporale Medico Thompson (James Edwards), l’efficiente Sgt. Tanaka (Richard Loo), il “democratico” Ten. Driscoll (Steve Brodie) e l’innocente e devoto “Short Round” (tradotto letteralmente con “Palla Corta”, anche se ”piccoletto” probabilmente sarebbe stato più calzante) interpretato da William Chun.
Fanno capolino scarne e schematiche riflessioni sulla religione (la maggior parte delle – povere - location sono rappresentate dal tempio buddista ove si svolge il grosso dell’azione), con un Budda (un Cristo ?) silente che si guadagna, nella sua ottusa e statuaria impassibilità, enigmatici primi piani dal regista e dubbiosi sguardi dai protagonisti. Si motteggia sul razzismo, col diavolo tentatore rappresentato dal maggiore nemico che tenta invano di insinuare il dubbio tra le fila nemiche facendo leva sulle discriminazioni patite dai neri e dagli americani di origine giapponese (Tanaka e Thompson, memorabile la risposta di quest’ultimo: “50 anni fa mio padre non poteva salire sugli autobus, oggi posso sedermi nei posti a me riservati in fondo, tra 50 anni potrò sedermi in prima fila”). Argomentazioni, seppur a corollario di un film comunque di guerra (principalmente teatrale e “da camera” visto il risicato budget) e crudezza della pellicola che procurarono qualche problema al regista con l’FBI, in un’epoca dove imperava la caccia alle streghe maccartista.
Lo stile secco e realistico, il perfetto controllo dei campi medi e stretti e della ripresa degli ambienti, l’ottima fotografia (impressionante, per resa, l’invasione di luce provocata dai proiettili nemici nel tempio nella battaglia finale) fanno di “Corea in fiamme” un film importante, seppur nelle sue imperfezioni (principalmente, lo ripetiamo, dovute alla macanza di soldi e comparse), compensate però da un’inventiva straordinaria e da dialoghi sopraffini.
Diretto, privo di compromessi, non autoassolutorio. Fuller, insomma.
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