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La giuria

Regia di Gary Fleder vedi scheda film

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La recensione su La giuria

di darkglobe
8 stelle

Un buon thriller processuale che si discosta da tutti i suoi predecessori per il diverso approccio al tema

Si sa, con gli anni il palato si raffina: film che una volta ti entusiasmavano col passare del tempo possono apparire a grana troppo grossa e i difetti possono diventare palesi, macroscopici, intollerabili. Eppure ci sono film che possono essere rivisti svariate volte negli anni, senza che questo ne intacchi l’apprezzamento. È ad esempio il caso de La Giuria di Gary Fleder, lavoro cinematografico che continua ogni volta a piacermi e che continuo a considerare sostanzialmente bello. Mi è capitato di rivederlo almeno 3 volte ed il fatto più sorprendente è stato di non ritrovare nel film scene della cui presenza ero convinto, segno che la sua potenza evocativa sia tale da aver lasciato correre la mente portandola a fantasticare su fatti del tutto assenti nei fotogrammi reali. Niente male per un’opera che non rientra certo nell’ambito dei cosiddetti capolavori del cinema.

La sceneggiatura de La giuria è ispirata all’omonimo romanzo del prolifico autore di legal thriller John Grisham, sulla cui idea di come debba essere concepita la scrittura ho sempre nutrito svariate riserve. Ma tant’è, l’uomo è un pozzo di idee e soluzioni narrative la cui presa sul pubblico è innegabile. La sceneggiatura a 4 mani di Brian Koppelman, David Levien, Rick Cleveland e Matthew Chapman effettua sul testo un cambio di non poco conto, trasformando quella che nel romanzo era un’azienda produttrice di sigarette nella Vicksburg, azienda di armi, le cui vendite sono alimentate con un certo cinismo, alleggerendo i dovuti controlli su venditori e subvenditori. Il caso vuole – siamo a New Orleans - che un ex-dipendente di un’azienda di brokeraggio immobiliare compia una strage dopo il suo licenziamento, massacrando con un’arma da fuoco della Vicksburg alcuni impiegati ed il titolare del suo vecchio ufficio; la moglie di quest’ultimo, dopo due anni, cita in giudizio la fabbrica di armi, sulla base del principio di colpevolezza per responsabilità oggettiva nella strage a causa della negligenza mostrata nei propri meccanismi di distribuzione e vendita.

A condurre la complessa causa, che nei fatti è un attacco senza mezzi termini contro la lobby delle armi ed una cui vittoria avrebbe conseguenze inimmaginabili, c’è l’avvocato Wendell Rohr (Dustin Hoffman), coadiuvato dal volenteroso consulente Lawrence Green (Jeremy Piven).

La difesa preferisce invece affidarsi allo spregiudicato consulente Rankin Fitch (Gene Hackman) ed al suo poderoso team, con lo scopo di raccogliere informazioni sui giurati ed influire sia sulla loro selezione che, nel seguito, sulle loro decisioni, agendo illecitamente con lo strumento del ricatto. La spietatezza di Fitch viene subito messa in evidenza dall’emblematico dialogo con il tassista che lo conduce al tribunale, a cui suggerisce di mandare la madre malata in ospizio pur di non ritrovarsi in casa una moglie astiosa.
Nonostante gli sforzi di Fitch per evitare che in giuria vi finiscano elementi sospetti che possano danneggiare la casa d’armi, nel gruppo dei selezionati, grazie ad un piccolo stratagemma psicologico teso a condizionare le scelte del giudice Harkin (Bruce McGill), vi fa ingresso anche Nick Easter (John Cusack), videogamer all’apparenza un po’ disilluso ed interessato a tutt’altro.

È proprio Nick a conquistare, a processo iniziato, tutti gli altri giurati grazie ai suoi modi affabili al punto da indurli fin da subito a scegliere il non vedente Herman Grimes (Gerry Bamman) come presidente di giuria, contrastando così l’autocandidatura a quel ruolo dell’ex marine Frank Herrera (Cliff Curtis). E nel frattempo una sua complice, la bella Marlee (Rachel Weisz), inizia a ricattare Rohr e Fitch, dichiarando di poter condizionare il verdetto, chiedendo loro un riscatto da 10 milioni di dollari.
La tensione sale quando effettivamente un giurato viene espulso, a dimostrazione che alle parole di Marlee corrispondano fatti e la giuria viene addirittura posta sotto sequestro dopo l’irruzione di alcuni sicari di Fitch nell’abitazione di Nick alla ricerca di informazioni che chiariscano i piani del giovane giurato. A nulla valgono i tentativi di Fitch di liberarsi dei due complici inviando l’agente Janovich (Nestor Serrano) a zittire Marlee.

Il film trae la sua forza non tanto dalla focalizzazione sull’andamento del processo, di cui pure si assiste a non pochi dibattimenti ed alla energia accusatoria di Rohr, spinto dalle sue profonde convinzioni morali, o alla sorprendente sparizione del testimone chiave dell’accusa, esemplificativa della esagerata potenza intimidatoria messa in campo dalla difesa; intende piuttosto smontare la falsa illusione che nasce dal mito della giuria popolare statunitense ed evidenziare quanto siano labili i meccanismi della sua selezione e quanto concretamente percorribili le subdole azioni di condizionamento della stessa, evidenziando tutta la fragilità di una struttura giudicante che è conseguenza diretta delle inevitabili fragilità dell’essere umano: è questo il motivo per cui Fitch cerca con pervicacia che sfiora continuamente il confine dell’illecito e della violazione della privacy il punto di caduta di ciascun giurato, convinto di poterlo sempre trovare. Né una certa rigidità del giudice pare essere in grado di restituire credibilità al sistema quanto piuttosto aggravarne la condizione di intrinseca debolezza.

Serpeggia un certo moralismo mai però debordante, incarnato da Hoffman nel ruolo a lui ben confacente di avvocato votato a una causa quasi impossibile ma spinto dalla propria integrità, che mira nonostante tutti gli eventi avversi a porre un severo freno alla vendita incontrollata e al possesso delle armi; tema quest’ultimo continuamente riproposto dai fatti di cronaca che evidenziano un problema cardine della società statunitense, irrisolvibile a causa dello strapotere della industria delle armi e dei suoi decennali condizionamenti sul legislatore. Neppure un anno prima sul tema irrompeva Michael Moore con il suo Bowling a Columbine che potrebbe in qualche modo aver condizionato la scelta radicale della sceneggiatura.

Hackman è un attore di una bravura incommensurabile e sorprende constatare come al suo terzultimo film riesca a donare ancora così tanta forza recitativa e credibilità ad un archetipo umano fatto di puro cinismo a cui ha offerto il proprio volto ormai decine di volte. È proprio Hackman a fare da centro stella rispetto agli altri tre comprimari ed al venditore d’armi, sostenendo con il suo sprezzo innumerevoli e riuscitissimi scontri dialettici che ne esaltano la bravura ed alimentano costantemente la tensione del film: memorabile quello con Hoffman, paradossale non avessero mai recitato iniseme prima di allora, a simboleggiare un apocalittico conflitto tra bene e male, tra due concezioni della morale e dell'essere umano radicalmente opposte.

Basterebbe già questa coppia di attori, pur se imbolsita dalle rughe e dagli acciacchi del tempo, a tenere in piedi un film che, oltre al buon plot gravido di suspense, trae la sua forza più dalla potenza recitativa dei suoi interpreti che da una spettacolare messa in scena. Con la dovuta eccezione per la credibile sala computerizzata di schedatura e monitoraggio dei giurati e per le parti più propriamente d’azione, dove una non fastidiosa camera a spalla spezza la staticità della mdp dell’aula del tribunale e della stanza dei giurati.

A proposito delle scene d’azione e degli spazi aperti, non si può non menzionare la terza vera protagonista del film, Rachel Weisz, la quale, oltre ad essere di una spudorata bellezza restituita a dovere dalla scura fotografia di Robert Elswit, appare dannatamente brava nel suo ruolo di pervicace ed abile ricattatrice. Quando viene aggredita da Janovich viene sinceramente da chiedersi come si possa danneggiare una simile creazione della natura, fino a quando non è lei stessa, nel gioco di geniale montaggio di William Steinkamp che propone il finale della colluttazione in flashback, a sferrare adeguati calci negli stinchi dell’aggressore consentendo allo spettatore amante del bello di tirare un sospiro di sollievo.

Quanto a Cusack, l’attore, dismessi ormai da oltre un decennio i pur apprezzabili panni del giovane adolescente un po’ burlone e un po’ sfigato, ha già affrontato prove come Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Essere John Malkovich ed Alta Fedeltà, pur se intervallate da altre non certo indimenticabili. E dunque, nonostante si trovi a recitare al fianco di due mostri del cinema, non genera rimpianti ma anzi contribuisce a sostenere con naturale disinvoltura, nel suo ruolo di apparente uomo ordinario ma in realtà di acuto affabulatore, la complessità del garbuglio narrativo.

Particina paragonabile ad un cameo di Jennifer Beals tra i giurati: sono già passati ben 20 anni da Flashdance e 10 anni da quando Moretti ne ha celebrato scherzosamente il mito in Caro Diario.
Finale che inizia a divenire prevedibile ben prima delle ultime scene ma che si palesa come naturale e plausibile conclusione.

Tesa la bella colonna sonora del collaudatissimo Christopher Young.

In sintesi un buon thriller processuale che si discosta da tutti i suoi predecessori per il diverso approccio al tema, godibile e ricco di ritmo, tensione emotiva e colpi di scena oltre che zeppo di pregevoli prove recitative.

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