Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Haneke fonda una nuova cronologia, quella del caso, e il nuovo demiurgo è uno schermo tv.Sfilano le tessere di quello che vorrebbe diventare un mosaico compiuto, ma è solo il regno del caos.
Terzo e ultimo film di quella che è stata definita “trilogia della glaciazione”, aperta da Il settimo continente (1989) e Benny’s video (1992), 71 Frammenti è il meno sconvolgente, potremmo definirlo il meno violento, ma non lo faremo.
La violenza rappresentata è meno circoscritta di quella, agghiacciante, degli altri due, dove la vicenda esplosiva resta nei margini di una situazione privata, ma non per questo in 71 Frammenti è di portata inferiore.
Quello che cambia è che l’avvertiamo come normalità, è la violenza con cui conviviamo più o meno amenamente ogni giorno.
In apertura un titolo riassume una notizia del 1993: il 23 dicembre Maximilian B., giovane studente di 19 anni, aprì il fuoco in una banca di Vienna con una pistola, chissà perché tenuta nella macchina parcheggiata dal benzinaio sull’altro lato della strada.
Piccola strage di tre persone (che non vediamo, Haneke non ama appagare le nostre morbosità) seguita da suicidio (idem) del giovane che risale in macchina e si spara.
Il ragazzo compare in alcuni dei 70 frammenti precedenti. Bello, calmo, forse un tantino depresso, solo qualche indizio a suo carico (uno scatto di nervi seguito da scuse, gioco e scommesse fra ragazzi, rimproveri dall’istruttore di ping pong) è in procinto di tornare a casa per le vacanze di Natale dalla mamma che ama tanto (si capisce dal tono della telefonata).
Di lui sappiamo che un tizio gli ha procurato una pistola, ma non abbiamo idea di cosa gli frulli per la testa.
Il ragazzo ha fretta, ha fatto benzina e sta bloccando la fila per pagare, il bancomat non gli dà i soldi, out of order, entra in banca, la fila è lunga. Concitato tenta di superarla, ma un tipaccio lo prende a pugni, lui esce, prende pistola dalla macchina, torna e spara un po’ qua un po’ là.
Quindi attraversa la strada, risale in macchina e si uccide.
Il caso vuole che alcuni personaggi visti negli altri frammenti entrino in rotta di collisione con lui perché si trovano lì, hanno a che fare in vario modo con quella banca e il loro destino prende una direzione che devia di molti gradi da quella che aveva avuto fino a quel momento.
Come il giovane Benny di Benny’s video è ossessionato dalla TV, dalle telecamere e dalla violenza che osserva di continuo, così Maximilian, prodotto ormai alterato, cova patologie pronte ad esplodere al minimo intoppo.
Il focus è sul caso, e il caso rimanda al Caos, dimensione in cui la violenza è connaturata, è parte integrante del sistema, è istinto di sopravvivenza, è dove estetica e morale tornano ad essere quello che sono, costruzioni che l’uomo crea per autoingannarsi.
L’assunto acquista perciò una speciale valenza filosofica.
Dando il primato alla sorpresa incredula che il finale suscita (la domanda infatti è: può il caso essere così poco casuale?) Haneke ci trasforma in passivi spettatori di fatti di cronaca, storie di strada, scenari da interni borghesi, posti di lavoro, mense studentesche, bar e quant’altro, in una sequenza casuale a cui applica quanto di meno casuale esista, una cronologia.
Forzatura dirompente che obbliga a cercare un principio informatore che non c’è, quel tout se tiens che svela, irridendolo, il bisogno dell’uomo di darsi un credo, una traccia, un Dio che spieghi e che consoli di “… quell’ abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia”, che cantava il buon Leopardi.
Il ragazzino rumeno clandestino che va rubacchiando e si consegna alla polizia perché fuori fa freddo; la signora che a tutti i costi vuol far da madre a qualcuno e dopo aver adottato la bambina semi-autistica piange a dirotto di fronte al caso del rumeno visto in tv, e allora prende anche lui e lo lascia ad aspettarla in macchina di fronte alla banca; il nonno che rompe le scatole per telefono a figlia e nipotina ed è allo sportello per la pensione con una busta piena di regali natalizi; il marito impacciato che fa il portavalori, a casa prega in bagno e sussurra “Ti amo” alla moglie mentre cenano e lei sta tagliando una triste polpetta. Lei lo guarda esterrefatta, poi gli chiede se ha bevuto.
Queste ed altre comparse fulminee in frammenti di vita filmata quasi sempre da macchina fissa registrano la normalità del vivere associato.
A mò di intervallo fra scene domestiche, autostrade e strade trafficate e sfavillanti di shopping natalizio, passano spezzoni di notiziari televisivi con scenari di guerra (Somalia, Haiti, Bosnia) raccontati da speaker asettici, mezzibusti come robot che guardano gelidi di là dal vetro e parlano dei grandi della Terra, dei loro negoziati di pace, di cieli e mari popolati di bombe, ma anche dei vantaggi di una vita governata dai sistemi informatici o della bontà della cucina internazionale con riflettore puntato sul sushi, novità importata da poco in Occidente.
L’evento traumatico (il ragazzo killer suicida) è schedato come follia inspiegabile dal benzinaio jntervistato che stringe le spalle, segue commento dello speaker che sottolinea la spiacevole concomitanza con la vigilia di Natale
Le stragi in Bosnia, seguite da reportage sulla pedofilia di Michael Jackson, lo sciopero dei lavoratori dell’Air France e la strage in un bar di Istanbul, si alternano a scene di vita privata, grumi di parole filtrate da un rassicurante schermo tv, e mentre si deplora resta tutto il tempo per comprare regali e preparare il tacchino ripieno per la festa imminente.
Haneke fonda una nuova cronologia, quella del caso, e il nuovo demiurgo è uno schermo tv.
Allinea 71 frammenti, pezzi spesso inconclusi di vicende e personaggi presi a caso, movimenti di macchina che spesso troncano di colpo una ripresa, particolari filmati senza riprendere l’insieme, immagini spezzettate, televisori di cui si vede mezzo schermo, quadri neri che separano le scene, un nulla che divide, un sipario che si chiude e si riapre su un mondo ogni volta diverso.
Sfilano le tessere di quello che vorrebbe diventare un mosaico compiuto, ma è solo il regno del caos.
Eppure la ragione pensante insiste a cercare un senso, e ciò che è scoordinato e casuale finirà per integrarsi in un puzzle dove le tessere s’incastreranno alla perfezione a formare un’immagine.
Quale?
Quella televisiva.
Intanto la tregua di Natale in Bosnia non ci sarà, lo annuncia la giornalista ai telespettatori.
Frammento 71: “A Sarajevo tutti sognano un Natale di pace…”.
Seguono filmati strappacuore, poi si passa a Michael Jakson e ai suoi guai giudiziari.
E’ il 1993, ancora qualche anno ed esploderà il web.
www.paoladigiuseppe.it
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