Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
Dopo il suicidio del figlio adolescente, una signora benestante si rende conto di aver sempre condotto un’esistenza vuota e si dedica ad aiutare gli altri, finché i familiari la fanno internare in una clinica per malattie mentali. Premetto che nessuno dei film di Rossellini costruiti intorno alla Bergman mi entusiasma: li trovo troppo simili a monumenti, troppo funzionali alla celebrazione della diva. È una caratteristica che si trova al massimo grado in questa storia esemplare di crescita interiore: una donna non frivola o insensibile, ma comunque distratta dagli impegni mondani (guardiamola nei minuti iniziali prima della tragedia, quando non ascolta i ripetuti “ti devo parlare” del bambino), diventa una figura cristologica acclamata santa dai suoi beneficiati. C’è un’evidente confusione ideologica, forse dovuta anche ai troppi sceneggiatori (il giornalista comunista sembra dapprima una specie di apostolo degli oppressi, poi un marpione con secondi fini, poi scompare del tutto), ma in fondo non è un male: altrettanto confuso è il percorso della protagonista alla ricerca di qualcosa che neanche lei sa (significativa la scena in cui le viene sottoposto il test di Rorschach e non riesce a vedere nulla altro che macchie nere). Non sente di avere nessuna missione da compiere, opera il bene per istinto, non c’è nessuna progettualità dietro alle scelte che le si presentano per caso: dare i soldi per le medicine a una famiglia con bambino malato, procurare un lavoro a una madre single, accompagnare a casa una prostituta tubercolotica. Trovo che il pregio del film sia soprattutto questo: l’assenza di proclami.
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