Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
Europa, (19)51, luogo e tempo, più che una storia un contesto. Rossellini può permettersi di esprimersi in toni generali e, a ben vedere, universali.
Definizione di guerra per Rossellini: quando anche i bambini aspirerebbero al suicidio. Questo calza a pennello nel 1948, per Germania anno zero, che della guerra parla esplicitamente. Ma in Europa '51 come giustificare l'atto estremo del piccolo Michel, che pure già è sopravvissuto a bombardamenti e insidie di ogni genere? Perché farlo dopo 6 anni dalla fine della guerra, e non durante la guerra, in cui il mondo aveva mostrato il peggio di sé? La risposta più ovvia sarebbe fare riferimento sempre alla guerra e al fatto che nel 1951 il dopoguerra è ancora appena iniziato, e le ferite sono fresche, non rimarginate. Ma forse da parte del piccolo Michel c'è una consapevolezza ancora maggiore, e ancora più atroce, quella del tragico compromesso: una madre che al finire della guerra diviene assente, attenta all'apparire, e non si cura più di un figlio lasciato in balia dei suoi shock emotivi. Una madre che un tempo era stata vicinissima al figlio, per difenderlo dal turbinio di violenza che aveva agitato il mondo all'inizio degli anni 40. Una madre che aveva partorito nel contesto più brutale che ci si potesse immaginare, e che nonostante questo perde il figlio in periodo di "pace", quando tutto è calmo e ci si può permettere di pensare alle formalità, all'eleganza, alle disparità sociali.
Alimentata dall' "odio nei confronti di se stessa", lei, Irene, un'Ingrid Bergman in stato di grazia, forse in uno dei ruoli più difficili della sua carriera, decide di esprimere tutto l'affetto materno che non ha mai potuto trasmettere al figlio, e così diviene testimone di una realtà che dal suo livello sociale si tende a dimenticare: quella del sottoproletariato, dei disoccupati, degli ammalati, di tutti coloro che sarebbero oggetto di cure di una missionaria. E questo lei diventa. O meglio, si trasforma in una creatura altr(uist)a, che però istintivamente risponde a un impulso, e che non costruisce dunque il suo essere benefattrice solo per uno sfarzo personale. Anche qui, come prima, un tragico compromesso: il bene arriva sempre dal male (dell'odio, della guerra, della morte), e gli altri non potranno mai comprenderlo. Quegli altri che la riterranno pazza e la chiuderanno in una casa di cura, a causa di un atteggiamento supposto "superbo" ma in realtà come "alienato" dal costante stato di alienazione che trionfa nella realtà fittizia in cui lei viveva. Irene dipana le falsità del suo mondo, sfronda le impalcature dell'ipocrisia borghese e diviene un'eroina destinata alla clausura, alla frustrazione. Un animale incompreso, solo, odiato da tutti se non da coloro che, impossibilitati a far qualcosa, la piangeranno in un'ultima straziante sequenza.
Europa '51 racconta un contesto più che una storia, si avvale di una regia realista che non prende posizione, se non quella patetica [in senso buono] nei confronti della protagonista e che fa di quella pietas non un mezzo per capire se Irene sia pazza o meno, ma un modo per rendere problematica la situazione, e gettarla sul dilemma morale/sociale. In una maniera talmente potente e semplice, dal punto di vista cinematografico, da non far arrugginire neanche una sequenza di questo splendido film nonostante lo scorrere del tempo.
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