Regia di Fausto Tozzi vedi scheda film
Se avessi assegnato un voto a questo film quando lo vidi in sala alla sua uscita, probabilmente non sarei andato oltre la sufficienza ma, come spesso accade, con il cinema il tempo sa essere galantuomo ed eccomi ad affibbiare quattro stelle e mezza ad una pellicola che, con il senno di poi, si avvicina al capolavoro. Siamo infatti in presenza di un documento unico nel mostrare, praticamente in tempo reale, il passaggio di uno dei quartieri più noti di Roma da popolare ad accozzaglia di strati sociali, di personaggi venuti da ogni dove, in un moto di colonizzazione senza identità definita. Quella che all’epoca poteva apparire come una commedia di costume tra le tante, si è trasformata in un documentario di inestimabile valore, perché a nessun altro venne in mente di filmare il cambiamento che in pochi mesi trasfigurò Trastevere. L’agglomerato è un cantiere a cielo aperto, sporco e disordinato, nel quale sfilano personaggi eterogenei ma tutti ben calati nella loro epoca. Accanto agli ultimi popolani, massaie e commercianti, venditrici di sigarette di contrabbando, giovani bulletti e operai sfaticati, danno vita al racconto figure che non solo con Trastevere, ma con Roma nel suo insieme, non hanno nulla a che fare. Si comincia con l’ex-artista disilluso, dai modi di nobile decaduto, interpretato da un Vittorio De Sica ancora in gran forma. Denuncia ai carabinieri lo smarrimento del suo cane (ironicamente chiamato Mao) e coglie l’occasione per rimpiangere il tempo passato. Il cane in questione funge da filo conduttore, passando per le mani delle persone che via via lo raccolgono, dando vita ad una serie di siparietti animati da alcuni grandi nomi del cinema dell’epoca, da Vittorio Caprioli, sacerdote di quartiere dedito più ai piaceri della buona tavola che alle sue pecorelle, a Leopoldo Trieste, intellettuale dal fisico ingrato, sposato ad una bella quanto umile e rassegnata Milena Vukotic, con la quale intrattiene un rapporto trasgressivo e perverso, gettandola tra le braccia di altri uomini per soddisfare le sue inclinazioni voyeuristiche. C’è poi Nino manfredi nei panni del poliziotto della narcotici, una specie di Serpico de’ noantri infiltrato negli ambienti tardo-hippie e diventato a sua volta tossicodipendente. Purtroppo, proprio l’attore di maggior spicco dell’intero cast, incarna il personaggio più macchiettistico e meno convincente. Decisamente riuscito, al contrario, il ritratto del conte “marchettaro” interpretato dal grande caricaturista fiorentino Gigi Ballista, che visse realmente in una mansarda trasteverina dagli anni ’50 fino alla morte, sopraggiunta nel 1980. Leggermente patetica ma ugualmente riuscita la caratterizzazione di Enzo Cannavale nei panni di un umile omino che, a bordo di un’auto dimessa, percorre le vie intorno alle Terme di Caracalla rifornendo di caffé caldo, sigarette e altri generi di conforto le prostitute che vi stazionano. Accompagnato dal figlioletto, vive nel ricordo di una passeggiatrice deceduta tempo addietro e di cui era innamorato. A dispetto di situazioni piuttosto inverosimili, i suoi incontri notturni hanno il pregio di dialoghi vivaci e densi di amara comicità. All’interno di questa variegata descrizione di personaggi e piccoli eventi della vita quotidiana, la parte del leone spetta senza dubbio alla combriccola di popolane che, nella parte finale del film, muove in pellegrinaggio alla Madonna del Divino Amore, accompagnata dall’impagabile prete Vittorio Caprioli, di cui si è detto. In queste ultime scene, il regista e sceneggiatore Fausto Tozzi spinge l’acceleratore sulla sguaiatezza e il romanesco più colorito, regalando momenti di puro trash, in un’orgia di parolacce e cattivo gusto. Lungi dall’irritare, è un momento di cinema stupefacente, spiazzante e tristemente realistico.
“Trastevere” fu accolto molto negativamente dalla critica. Subì ampie sforbiciate da parte della commissione anti-censura, venne denunciato per vilipendio alla religione e fortunatamente assolto. Più che di un film sottovalutato, parlerei di un film frainteso, che oggi è possibile rileggere con il necessario distacco, per apprezzarne il valore testimoniale e la verosimiglianza.
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