Regia di Victor Erice vedi scheda film
Girato nel 1973, rappresenta l’esordio di uno degli ispiratori del cinema moderno spagnolo che decollerà dopo la fine del regime franchista. Victor Erice a cui il festival di Locarno 2014 ha dedicato un doveroso tributo, ha realizzato solo tre film ma il suo stile ha avuto il merito di educare e liberare un linguaggio e un punto di vista immobilizzato dalla situazione politica del suo paese, ma sensibile e attento al movimento culturale pressoché mondiale che in quegli anni ha rivelato il meglio dell’autorialità cinefila. Lo spirito dell’alveare può essere letto come documento dal valore storico, antropologico e sociale, attraverso il racconto di formazione che la bambina protagonista, Anna, vivrà scoprendo il dono simbolico dell’immaginazione. In una piccola comunità rurale spagnola del 1940, un cineoperatore ambulante proietta per gli abitanti del villaggio il film Frankenstein di J.Whale, Anna uscirà dalla sua visione profondamente turbata. L’espediente di usare lo sguardo ingenuo dell’infanzia per ridefinire simbolicamente tutti i vari elementi costitutivi del racconto, potrebbe far scivolare verso la banalizzazione della sua costruzione, condensando intorno al personaggio principale la priorità di un punto di vista relegato esclusivamente allo status emotivo e immaturo che la bambina incarna. Invece il regista non semina il suo terreno visivo abusando del più consueto meccanismo psicologico che lega l’abbandono, il distacco la perdita e successivo riconoscimento in un segno che sta all’interno del personale mondo conosciuto. Il valore esperienziale del percorso di Anna non sarà per niente rivolto verso ciò che conosce, ma sarà unicamente diretto verso l’esterno. Erice traduce nella sua storia, la teoria che vede coincidenti la rapidità delle immagini in successione con la capacità personale di rappresentazione che in questo caso assume un ritmo e una rielaborazione propria della condizione di crescita della bambina. Il cinema dunque, ma anche la scoperta dell’altro, la fantasia e il pudore dello sguardo si contrappongono ai genitori isolati dentro un’esistenza insignificante e distaccata, all’indottrinamento scolastico e religioso, ai vincoli educativi e affettivi che in qualche modo sembrano che cerchino di riportare la visione del mondo di Anna in canoni normalizzati. Con inquadrature rigorose e suggestive, bilanciando chiusura degli spazi interni con scenari naturali aperti ma anche assai desolati, Erice trasmette con precisione gli stati d’animo della bambina, come detto più testimone di realtà, meditata con la forza dell’immaginazione sempre connotata da una venatura densamente drammatica. Non sarà quella di Anna, neanche una scelta quella di rivolgersi verso il mostro, l’ignoto, ma la percezione di una forza attraente attraverso la quale riuscire a vedere le cose del mondo. Altrettanto importanti saranno gli altri componenti della sua famiglia, ognuno dei quali alle prese col proprio intimo mostro col quale confrontarsi o prendere le distanze per paura. Dalla sorella maggiore che spiega ad Anna la finzione del cinema, capace di simulare e di ingannare, che sente già le prime pulsioni del suo corpo, alla madre alle prese con un ipotetico antico amore che insegna alla figlia che il mostro non può fare male se si è conformi al proprio mondo. Infine la figura chiave del padre, impegnato nella cura di api e alveari, di cui osserva un po’ maniacalmente le strategie di conservazione e di sviluppo. Anche in questo caso un elemento fuori campo, una persona che resterà ignota, nella lettura degli appunti del padre, verrà descritto come egli vede l’alveare e il suo sistema organizzativo, cioè fagocitante e oppressivo, e forse il riferimento metaforico anche alla situazione sociale del paese non sembra fuori luogo. Poco più di vent’anni dopo, un regista spagnolo esordiente A. Amenabar utilizzerà nel suo primo lungometraggio l’attrice Ana Torrent, cioè la piccola Anna del film di Erice, in quello che sembra un vero e proprio omaggio al maestro, con un lavoro, Tesis, che mette in discussione la natura deleteria e degradata dell’immagine.
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