Regia di Joseph Losey vedi scheda film
Hugo Barrett è un Dirk Bogarde perfetto, levigatissimo, all’epoca un quarantaduenne che ne dimostrava dieci di meno.
Otto anni dopo, Morte a Venezia, Bogarde è un cinquantenne che ne dimostra dieci di più, e il trucco da solo non fa miracoli.
Barrett è the Servant, il servus nell’accezione più classica e semanticamente densa del termine, un personaggio che calca le scene da più di duemila anni, a partire dal servus currens di plautina memoria, adattandosi di volta in volta alle mode e ai tempi.
Stavolta siamo a Londra.
Lontani, ma non troppo, i tempi dei processi a Oscar Wilde, aleggia, è palpabile, quel sottile disagio che impone di reprimere inconfessabili pulsioni in gesti compassati, la comunicazione verbale in formulari rigidi, la gestualità in spazi claustrofobici, il fluire delle scene in specchi bloccati dentro cornici barocche.
E’ un ordine mentale che si riflette in un ordine sociale, il ribaltamento di quest’ordine non produce la risata liberatoria della commedia, nè il clima è quello dei Saturnalia, quando servus e dominus si scambiavano i ruoli per un mutuo accordo sancito dallo Stato e voluto dagli Dei, a compensare la distorsione evidente del principio naturale di eguaglianza fra tutti gli uomini.
Dal romanzo di Robin Maugham, sceneggiato da Harold Pinter, tutto si concentra lungo i tre piani di una casa-feticcio, straniante e alienante come si conviene ad un’abitazione di buona borghesia o nobiltà in declino di un’Inghilterra tra gli anni ‘50 e ‘60, dove arriva Losey in fuga dal maccartismo degli States e trova che si può licenziare dal lavoro qualcuno per omosessualità.
La scelta di Bogarde è dunque quanto mai felice, primo attore inglese a dichiarare pubblicamente la sua omosessualità, reduce dalla parte dell'avvocato omosessuale Melville Farr nel film di Basil Dearden ,Victim, del ‘61.
Il New British Cinema degli anni Sessanta trova qui applicati tutti gli articoli del suo decalogo, ma quel che più conta è quel riuscire a collocarsi nel solco della sperimentazione autoriale mantenendo immediatezza comunicativa, magnetismo delle immagini, attesa dell’evento, in sostanza tutto quello che fa del cinema il cinema nel senso più diretto del termine.
La rappresentazione di psicologie a rischio in un luogo bloccato, uno dei tratti distintivi del Losey migliore, qui trova la sua espressione più lucida e immaginifica.
Alla fine ci rendiamo conto di aver vissuto l’esperienza straniante di uno spazio claustrofobico, intorno al quale lo spazio esterno è solo un pretesto descrittivo, gli alberi scheletriti della strada lo avvolgono come una ragnatela, tutto è succube di quello che accade dentro, dove la macchina si muove agile, sottraendo fisicità ai corpi e assegnando loro i caratteri propri di un incubo.
Resta, irrisolta, la domanda: why?
Per una rassegna completa sul cinema di Losey:
http://www.indie-eye.it/cinema/?s=Losey
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